Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 15 novembre 2014

Prove di ricostruzione di una coscienza di classe

Luciano Granieri


C’è una linea ben visibile che unisce la manifestazione della CGIL dell’ottobre scorso, con quella del 14 novembre. E’ la varietà di soggetti che vi hanno partecipato. Con i sindacati di base in molte piazze d’Italia c’erano tutti i blocchi sociali, non solo lavoratori, precari, disoccupati, ma anche studenti insegnanti e ricercatori universitari.  Forse sarà eccessivamente ottimistico, ma sembra proprio che si stia formando una nuova coscienza di classe che aggrega al mondo operaio tutto il firmamento della maggioranza, fino a ieri silenziosa, che oggi non ce la fa più a vivere. 

Probabilmente questa nuova consapevolezza non è figlia di un nuovo processo di costruzione classista , ma scaturisce dalla volontà di uscire da un torpore sociale alimentato da sfiducia e rassegnazione. Risulta  ormai evidente che è tempo di ridestarsi  da questo sonno nichilista e di disillusione, se si vuole sopravvivere.  Ecco perché la voglia di scendere in piazza per difendere il proprio diritto minimo a campare comprende ampi strati della popolazione. Gente  che solo qualche giorno fa, mai e poi mai, sarebbe scesa in piazza.  

Non solo ma, finalmente, si  prende coscienza del fatto che non è  questione di migliorare il sistema, si tratta proprio di abolire il sistema.  Comincia a delinearsi un processo di critica e di rifiuto al neoliberismo finalmente individuato come causa di tutti i guai. Si sta realizzando un’unità di intenti, per  merito e metodo, che in altre nazioni  del sud Europa è in fase più avanzata, mentre da noi inizia  a strutturarsi solo ora. 

E’ un processo estremamente pericoloso per le èlite finanziarie . I burattini alla Renzi cominciano ad essere insufficienti a controllare il conflitto sociale e a neutralizzarlo. E quando il gioco si fa  duro i duri cominciano a giocare.  Quando la situazione diventa critica entrano in campo le guardie fasciste e razziste. Se il malcontento inizia a diventare incontrollabile ecco che  torna di moda la sempre efficace guerra fra poveri.  

Proprio  negli ultimi abbiamo assistito  al sapiente aizzamento, contro  extracomunitari e richiedenti asilo,   di fascisti della penultima e ultima ora. La solita marmaglia nera accoppiata alla nuova edizione  fascista della lega, è andata a sobillare le periferie, a spargere odio fra i diseredati nativi contro i diseredati stranieri.

 Anche questo tentativo è stato recepito dalla piazza del 14 novembre, infatti hanno sfilato, gli uni accanto agli altri precari, disoccupati e migranti, saldando un altro consistente pezzo di conflitto sociale. Non sappiamo ciò che ci attenderà  in futuro, se prevarrà una sempre più consapevole azione di lotta al capitalismo, o se la marea nera di odio leghista e fascista seppellirà tutto. Ritengo che proprio per evitare il pericolo della marea nera, associazioni e movimenti che hanno animato i cortei del 14 novembre dovranno moltiplicare le forze per disinnescare la bomba  che mette l’uno contro l’altro sfrattati e migranti. La gente non ce la fa più e dalle piazze del 14 novembre chiede rappresentanza. Evitiamo che in questo vuoto politico possa inserirsi la barbarie e l’odio razzista. 

venerdì 14 novembre 2014

Atto aziendale della Asl. Una grossa grassa presa in giro

Luciano Granieri


Foto tratta da "L'nchiesta quotidiano"
Si è perso solo del tempo e non si è evitata una sonora presa in giro. Questo è stato il risultato   che comitati e associazioni , confluiti nel Coordinamento Provinciale per la Sanità, hanno conseguito provando ad allertare i sindaci della Provincia sulla reale volontà regionale  di destrutturare la sanità pubblica del territorio a favore degli interessi privati e di altre Asl della Regione. Tenendo fede, cioè,  al piano inconfessato ed inconfessabile di riparametrare  la sanità regionale pubblica sull’asse Latina-Roma-Viterbo.  

Si può salvare la rilevanza mediatica raggiunta nel rapporto con i primi cittadini e si può  ritenersi sollevati per aver informato tecnicamente delle incongruenze e delle enormi omissioni presenti nel piano strategico,  di conseguenza nell’atto aziendale, e per l’aver avanzato proposte alternative e migliorative. Una magra consolazione.  

Anzi personalmente provo il rammarico di aver  concesso spazi inopportuni a soggetti  i quali, cavalcando le proteste contro le mire destruenti  dell’impianto sanitario provinciale, hanno provveduto a fare campagna elettorale per se e per i propri capi popolo in occasionie delle elezioni provinciali .  Che ci faceva il sindaco di Anagni alla fiaccolata di protesta dell’11 settembre scorso organizzata dal Coordinamento alla Villa Comunale se, pur chiudendogli l’ospedale sotto il naso, ha votato l’atto aziendale?  E il sindaco di Sora? Si è incatenato, è ricorso anch’egli al “moccolo rivoluzionario”, per poi accontentarsi di portare a casa qualche obolo, completamente incurante dello sfascio che lo sta circondando?  

E il grande tessitore Ottaviani?   Un vero riformista! La sua azione è paragonabile a  quella di quei sindacati che, da un lato tengono buoni i lavoratori con promesse di mediazione,  e dall’altro firmano tutto ciò che propina il padrone.  Un ottimo controllore del conflitto sociale, Bonanni e Angeletti a confronto erano dei dilettanti. Anche il sindaco del Capoluogo ha partecipato alle manifestazioni, mantenendo la giusta distanza però, immancabilmente  senza fascia, sfoggiando  battute inopportune verso membri del coordinamento in relazione alla loro capacità visiva, invitandoli a farsi controllare la vista. Un ‘impresa  titanica qui a Frosinone considerato che il reparto di oculistica è stato chiuso dalla manager “tor vergatara”.  

Il Sindaco frusinate  si è  pure presentato ad alcune riunioni del coordinamento, sempre abbondantemente in ritardo, (convocazione alle 21,00 e ingresso trionfale di Ottaviani alle 23,00 se non più tardi) facendo finta di ascoltare , cercando anche di porre qualche ostacolo, qua e là, qualche distinguo teso solo a perdere del tempo.  Si ricorda un  suo  contributo alla causa consistito  nel trangugiare panini e birra presso un locale di Alatri dopo un riunione del Coordinamento a notte fonda.  

Per non tacere della farsa dei giorni che hanno preceduto l’approvazione dell’atto aziendale, con il coordinamento prima ammesso alla  trattativa, riconosciuto a tutti gli effetti come parte in causa, poi escluso quando c’era da decidere  sulla “ciccia”. La manager Mastrobuono infatti aveva vietato,  nel pomeriggiodell’incontro decisivo con i sindaci, la presenza dei gufi  sanitari.  Non poteva rovinarsi la gioia e il gaudio della mattina quando, in una riunione in Federlazio,   aveva svenduto mezza sanità pubblica provinciale ai privati locali.

 I commenti trionfalistici dei sindaci che hanno approvato il piano aziendale sono stucchevoli e ipocriti. Si può credere alle fatue promesse di un Dea di II livello, quando l’atto approvato non riesce neanche ad assicurare un numero di posti letto conforme alle legge?  Si può approvare un documento  fuori legge anche per quanto concerne gli aspetti legati alla dotazione sanitaria necessaria alla  precaria situazione ambientale del nostro territorio? 

A molti questo attaccarsi ad un passaggio formale, con valenza semplicemente consultiva,  come l’approvazione a parte della consulta dei sindaci dell’atto aziendale della Asl, può sembrare eccessivo. Ma l’immagine che ci rimanda questa vicenda è drammatica. In relazione a decisioni  devastanti  per la sanità del territorio, solo 95.800 cittadini hanno trovato sindaci disposti a difendere il loro diritto alla salute  (impagabile in questo senso,  l’aiuto dato al coordinamento, dal  sindaco di Alatri, Morini e da quello di Vico nel Lazio Guerrriero). Ci riferiamo agli abitanti di Acuto, Alatri, Arnara, Boville,  Casalattico, Collepardo, Fumone, Guracino, Pescosolido, Piglio, Ripi, Serrone, Supino, Torre Cajetani, Torrice, Veroli, e Vico Nel Lazio, che hanno rigettato il patto aziendale.   Purtroppo altri 219.700 cittadini, (gli abitanti di Amaseno, Anagni, Arce, Atina, Belmonte Catello,Cassino, Castelliri, Ceprano, Cervaro, Colle San Magno, Ferentino, Fiuggi, Frosinone, Isola Liri, Picinsco, Piedimonte San Germano,  Posta Fibreno, Rocca D’Arce, Sant’Andrea sul Garigliano,  Sora, Terelle, Villa Santo Stefano) devono sorbirsi  sindaci che hanno avvallato un modello sanitario  NOCIVO PER LA SALTUE  e fuori legge.  Per i sindaci della restante popolazione provinciale , oltre 200.000 abitanti, occuparsi del diritto alla salute dei propri amministrati  è una perdita di tempo, non merita la benché minima attenzione.  

Non c’è da meravigliarsi dunque se la nostra Provincia è in completo degrado politico, sociale e morale. Non c’è da stupirsi se manca il lavoro se dilagano povertà, inquinamento  e malesseri di ogni tipo. Però quanti di noi si ricorderanno di questa vicenda quando torneranno alle urne per eleggere i propri primi cittadini?

giovedì 13 novembre 2014

Ultima curva prima della newco

Comitato di Lotta Frosinone

Mentre i sindaci dei comuni ciociari arrivavano alla chetichella presso il salone della Provincia per discutere e votare un atto aziendale che formalizzerà la precarietà della sanità locale esternalizzandone e privatizzandone i servizi, i lavoratori ex-Multiservizi presidiavano il palazzo per ribadire invece la necessità e l’imprescindibilità dell’intervento pubblico.
Vi era una importante riunione per le sorti della newco, sospirata società pubblica che ricollochi centinaia di lavoratori di Alatri, Frosinone e della stessa Provincia. Presenti Pompeo, presidente Provincia, Ottaviani, sindaco di Frosinone, e Morini, sindaco di Alatri, accompagnati da vari dirigenti dei comuni, hanno successivamente e separatamente incontrato i lavoratori: fra qualche giorno verrà convocata una nuova riunione dove all’ordine del giorno vi sarà la firma del protocollo d’intesa tra gli enti con il quale si rimanda agli organi tecnici preposti la formulazione degli atti per la nascita della società e per una, appunto, “riquadratura” del piano industriale. Ad un disponibile Pompeo nuovo protagonista non ancora perfettamente a suo agio nella saga Multiservizi, ad un Morini oramai sicuro delle scelte, si aggiungeva - non si contrapponeva - Ottaviani che interpretava in termini positivi la disponibilità regionale per i soldi della viabilità, facendo comunque capire che bisogna sgombrare l’orizzonte da qualsiasi questione sul ruolo degli enti davanti alle proposte di riduzione delle partecipate.
 I lavoratori sottolineano che alcuna legge impedisce agli enti locali di scegliere le migliori forme organizzative, anzi è possibile e utile ricorrere all’affidamento diretto in tutti i casi, come la gestione dei servizi pubblici della newco, in cui non sia possibile dimostrare, in base ad un’analisi di mercato, e all’esperienza frusinate vecchia di più di un anno, che la libera iniziativa economica privata risulti non idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità. “Spetta agli enti territoriali individuare gli ambiti oggettivi dei singoli servizi e giustificare, in base a tale definizione, l’inquadramento nelle diverse specie di attività e nei corrispondenti modelli organizzativo-gestionali”. - Relazione della Corte dei Conti Sezione delle autonomie - “Gli organismi partecipati dagli enti territoriali” - del 6 giugno 2014 
Il sopraggiunto Programma di razionalizzazione delle partecipate locali, del 7 agosto 2014 di Carlo Cottarelli, Commissario Straordinario per la revisione della spesa, propone, non dispone, una strategia basata su quattro cardini: 
 Circoscrivere il campo di azione delle partecipate entro lo stretto perimetro dei compiti istituzionali, e qui ci siamo; 
 Introdurre vincoli diretti su varie forme di partecipazioni, qui i problemi non sussistono vista la scarsissima partecipazione a società pubbliche; 
• Fare ampio ricorso alla trasparenza e alla pressione dell’opinione pubblica adeguatamente informata come strumento di controllo,  e questo lo chiedono per primi i lavoratori; 
• Promuovere l’efficienza delle partecipate …. che offrono servizi simili per sfruttare al meglio le economie di scala. La newco va proprio in questa direzione. 


L’auspicio alla forte riduzione delle partecipate e alla privatizzazione dei servizi interessa fortemente i cinque tradizionali servizi pubblici di rilevanza economica a rete, elettricità, acqua, gas, rifiuti, trasporto pubblico locale. E’ indicativo soprattutto quando definisce gli ambiti di intervento che dovrebbero essere simili agli ATO esistenti “allo scopo di estendere i bacini territoriali di riferimento per gli affidamenti avendo come area obiettivo un livello sovra provinciale”, che provano a fare spazio alle multinazionali (l’acqua insegna).
La riduzione delle partecipate riguarda soprattutto quelle create solo per far mangiare i consigli d’amministrazione. Le attività della newco forniscono servizi alla cittadinanza in settori in cui la finalità di lucro non è presente e si finanziano principalmente attraverso la fiscalità generale. 


La vicenda delle partecipate e della privatizzazione dei servizi appare anche nella legge DelRIo di riordino delle province, nei settori riguardanti servizi di rilevanza economica, con la “valorizzazione delle autonomie funzionali e delle più ampie forme di sussidiarietà orizzontale”.  
"Chapeau!"

mercoledì 12 novembre 2014

La democrazia è un gingillo per miliardari

Luciano Granieri

Il risultato eclatante delle elezioni americane di medio termine non è stata l’imponente occupazione di Camera e Senato da parte dei Repubblicani, o la  completa disfatta democratica anche  in stati considerati da sempre feudi dei Obama  come la North Carolina. Il dato rilevante ma  poco pubblicizzato è che a queste elezioni di  “miterm” ha partecipato si e no il 40% della popolazione. Un astensionismo mai registrato fino ad ora negli Stati Uniti. A disertare i seggi sono stati per lo più gli  ispanici e gli afroamericani e le classi popolari,  la  base elettorale, che   aveva assicurato la vittoria ad Obama, rimasta delusa dall’azione politica del primo Presidente americano nero . Ad astenersi dal voto, cioè,  sono  stati proprio i lavoratori e la classe media americana.  Infatti svaporata la promessa  socialista riformatrice di Obama,  rimasta solo sulla carta, come al solito, le istanze della classe lavoratrice americana, e dei ceti medio bassi, non sono state recepite da nessuno dei due partiti.  

Il segno delle politiche economiche promosse dai due schieramenti era praticamente identico, volto a sostenere i poteri forti,   le lobby delle armi  e della finanza.  Le spese record di questa campagna elettorale, circa 4 miliardi di dollari in totale, stanno a dimostrare che le elezioni sono affare da ricchi. E’ feudo  di quei miliardari che si sono spesi in finanziamenti elettorali per vedere tutelati dalla politica i propria affari. A dirla tutto, maggiore è l’astensionismo, il disincanto e il disinteresse per  le questioni politiche, maggiore sarà il potere delle oligarchie finanziarie e capitaliste.  

Lo stesso perverso meccanismo antidemocratico ed antipopolare sta entrando a regime anche qui in Italia.  Proprio in concomitanza con le contesa elettorale statunitense, in Italia andava in scena la kermesse renziana della Leopolda. Un evento pagato dai lauti contributi dei  potentati finanziari,  delle oligarchie fedeli all’ex sindaco di Firenze. Un pantagruelico  esercito  capitanato da Davide Serra, esportatore di capitali alle Cayman, animatore del fondo Algebris,  co-dissangatore del Monte dei Paschi di Siena a colpi  ribassisti  di vendita azionaria allo scoperto, grande amico e finanziatori di Renzi (non del partito democratico).  Dai  famosi tavoli di brain storming  organizzati nell’ex stazione fiorentina,  è emersa  la liquidazione dei diritti dei  lavoratori ( sul divieto del diritto di sciopero lo stesso Serra si è espresso in modo più che esauriente) e dello stato sociale, ridotto a semplice elemosina per zittire i mendicanti. 

Dopo  l’evento della Leopolda,  Matteo Renzi  ha inaugurato la nuova campagna di finanziamento del partito,  a base di cene dal conto minimo di 1.000 euro a cranio, a cui hanno partecipato soggetti dagli interessi opposti a quelli di operai, disoccupati, precari. Da Marchionne,  a  Mr. Pallotta - il presidente dell’ AS  Roma, potente uomo d’affari,  signore dei più ricchi fondi d’investimento americani -  tutto il gotha  predatorio capitalistico finanziario era ospite alle cene renziane.  

Giova ricordare  che solo qualche mese prima, Matteo Renzi aveva liquidato  come ininfluente il drammatico  calo di iscritti al Pd, sostenendo che era preferibile un partito  con meno tesserati, ma con più elettori.  In altri termini si poteva tranquillamente fare a  meno degli spulciosi 10 euro del militante, spesso elemento di disturbo del treno  riformatore liberista, dei patti inconfessabili con gli ex nemici , e aspirare ai portafogli ben più gonfi degli amici speculatori. 

Sullo sfondo di queste dinamiche aleggia l’abolizione del  finanziamento pubblico ai partiti, finalizzato a regalare le leve del comando a ricchi finanziatori privati così come accade negli Stati Uniti.  In uno scenario simile anche qui in Italia l’astensionismo, alimentato dalla disillusione, dal nichilismo, dall’impegno a combattere il poveraccio della porta accanto, raggiungerà percentuali mai viste. Ma è giusto così.  Certa gente non merita di partecipare a scelte che non gli competono, anche se riguardano la loro vita, certa gente merita solo le manganellate quando osa alzare la voce. La democrazia è un gingillo delicato,  per ricchi, non va lasciata nelle sporche mani di un operaio qualunque. Aggiornatevi gente!


Inizia una nuova stagione di lotte: chi cerca di fermarla e chi vuole svilupparla


Alberto Madoglio

A proposito del "landinismo": malattia senile dell'opportunismo



Nelle ultime settimane è ritornata con prepotenza, nel dibattito politico nazionale, la querelle legata all’individuazione di un nuovo leader, di un nuovo soggetto politico, che possa rappresentare un’alternativa a coloro i quali in questi anni hanno sostenuto e posto in essere scelte politiche, economiche e sociali che hanno contribuito a peggiorare le condizioni di vita (nell’accezione più larga: salario, welfare state, diritti sul posto di lavoro) delle classi subalterne italiane.
Tutto questo è il risultato di fattori oggettivi e soggettivi. I primi legati al perdurare, anzi all’ulteriore peggioramento della crisi economica che, su un’economia complessivamente debole come quella italiana, ha delle influenze pesanti. Gli altri dovuti invece alla svolta in senso autoritario e marcatamente anti-operaio del governo Renzi.
Per la prima volta il Partito democratico appare a settori di massa del movimento operaio non più come un partito che, magari in modo confuso e contradditorio, cerca di tutelare i loro interessi, ma come un partito che, alla pari degli altri partiti borghesi, si fa garante e portavoce delle esigenze delle classi dominanti italiane e europee. Questa svolta “liberale” del Pd è in realtà avvenuta da diversi lustri e non è figlia della “nuova generazione” renziana. Tuttavia il fatto che stia diventando patrimonio comune, e non solo di avanguardie politicizzante, ha una sua importanza non trascurabile.
Inoltre, il fallimento dei due partiti che, tradizionalmente, rappresentavano la sinistra di “classe” nel Paese (Rifondazione comunista e Sel) contribuisce a porre all’ordine del giorno la necessità di costruire un nuovo soggetto politico che si faccia portavoce delle rivendicazioni della classe operaia.
 
Landinismo, malattia senile dell'opportunismo
La risposta che sta prendendo piede, tuttavia, rappresenta l’ennesima illusione, l’ennesima riproposizione di quella “falsa coscienza” che, in mancanza di una direzione coerentemente rivoluzionaria, non può che ripresentarsi inevitabilmente.
Il leader che al momento incarna questa illusione è l’attuale segretario della Fiom, Maurizio Landini. Ospite in diversi talk show televisivi, intervistato a destra e a manca, appare come il leader che la sinistra cercava da tempo.
La foga nel difendere le sue idee e un eloquio meno “aulico” dei vecchi narratori della sinistra classista (Bertinotti e Vendola), lo fanno apparire agli occhi di milioni di operai, giovani, disoccupati come uno di loro.
La sua ricomparsa sotto i riflettori della cronaca e del dibattito politico nazionale è abbastanza recente e risale alla primavera del 2010, quando Marchionne lanciò il suo attacco ai lavoratori del gruppo Fiat, partendo dallo stabilimento di Pomigliano d’Arco. Marchionne col tempo “ha fatto scuola” e il “modello Pomigliano” - inteso come cancellazione dei diritti dei lavoratori attraverso licenziamenti, cassa integrazione, decurtazione del salario e fortissima limitazione della libertà sindacale sul posto di lavoro - si è pian piano generalizzato in ogni settore del mondo del lavoro. Da quel momento il sindacato dei metalmeccanici della Cgil e il suo segretario sono apparsi gli unici in grado di opporsi all’arroganza padronale.
All’epoca l’isolamento della Fiom era quasi totale, visto che anche la Cgil spingeva per sottostare al ricatto della Fiat (esplicite sono state in questo senso le prese di posizione della Cgil regionale campana e di quella di Napoli), mentre la Camusso suggeriva una “firma tecnica”, modo elegante per siglare una resa senza condizioni.
Ma fin da allora il radicalismo della Fiom apparve più una costruzione mediatica che una realtà. Anziché avanzare la proposta dello sciopero prolungato in tutte le fabbriche del gruppo Fiat, come primo passo per organizzare una lotta generalizzata di tutti i metalmeccanici - contro quello che fin da subito appariva non come un caso isolato di arroganza padronale, ma la prova generale di un attacco a tutto campo al mondo del lavoro - si scelse la via di minor resistenza.
Si scelse di delegare la difesa dei diritti alla magistratura borghese, dando il via a una serie di ricorsi e contro-ricorsi che nella sostanza non hanno portato a nessuna reale vittoria per i lavoratori.
Il fatto che contribuì a smascherare la moderazione e l’arrendevolezza della Fiom fu quando, nella fabbrica di Grugliasco (sempre gruppo Fiat), venne siglato anche dalla Fiom un accordo identico a quello che si era respinto a Pomigliano: decisione non contrastata da Landini.
 
Pugno di latta in guanto di velluto
Non è solo nelle vicende fin qui raccontate che si può vedere il carattere moderato e per nulla realmente alternativo al sistemo politico e sociale dominante della direzione dei metalmeccanici Cgil. Nel settembre 2011 e 2012 il Comitato Centrale della Fiom avanzava proposte alla controparte padronale per rientrare nel gioco delle trattative sindacali. Proposte che, nella sostanza, figuravano una resa incondizionata: raffreddamento del conflitto con blocco degli scioperi e di ogni rivendicazione radicale (2011); rinnovato appello alla moderazione rivendicativa, accettazione dell’accordo del 28 giugno 2011 (che distrugge il contratto nazionale di lavoro), cacciata dalla segreteria Fiom della sinistra di Cremaschi-Bellavita (2012).
Ricordiamo per dovere di cronaca che 2011 e 2012 sono stati due tra gli anni più duri per quanto riguarda le politiche contro i lavoratori: la crisi dello spread del debito pubblico italiano nella seconda metà del 2011 ebbe come risultato manovre finanziarie da oltre 100 miliardi di euro, una pesantissima riforma delle pensioni, un primo durissimo attacco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, al quale i sindacati (Fiom compresa) risposero con azioni innocue e rituali (sciopero di 3 ore contro la riforma delle pensioni) senza far appello alla mobilitazione generale e continuata.
Nel 2012 era data per certa una vittoria alle elezioni della primavera seguente dell’alleanza Pd-Sel. La Fiom e Landini all’epoca lanciavano segnali di affidabilità al probabile governo Bersani-Vendola, dicendo che dal versante sindacale si sarebbe fatto di tutto per garantire la pace sociale necessaria ai padroni per portare avanti i loro progetti di controriforma politica e sociale.
Sappiamo come è andata, ma nemmeno davanti a un esecutivo di larghe intese contro i lavoratori l’atteggiamento di Landini e soci è mutato, tant’è che insieme alla segretaria Camusso venne siglato l’accordo del maggio 2013 sulla rappresentatività che punta a garantire la pace sociale per decreto nei luoghi di lavoro, e che il regolamento attuativo del 10 gennaio 2014 regolamenta ma non stravolge, al di là di quello che strumentalmente sostiene Landini.
 
L'attacco in corso
E veniamo ai giorni nostri. L’attacco che Renzi sta sferrando ai lavoratori è solo il proseguimento di scelte precedenti. Il Jobs Act certifica solamente l’impossibilità di ogni mediazione nel quadro della crisi economica globale.
La brutalità e la rozzezza dell’azione di governo lasciano spazi per una propaganda radicale, ma oggi il suo interprete principale non è in grado di rompere definitivamente con l’azione moderata fin qui seguita.
Anzi, mai come oggi siamo davanti a uno iato tra dichiarazioni roboanti e pratica moderata. Se davanti all’approvazione del Jobs Act si accenna alla possibilità di occupare le fabbriche, alla prima occasione si precisa che il vero obiettivo è che ciò non accada, illudendosi che il governo possa mutare indirizzo politico. Peccato che tre milioni e duecentomila disoccupati e altrettanti cassaintegrati ci dicono che oggi più che mai la parola d’ordine della nazionalizzazione senza indennizzo sotto controllo operaio di fabbriche e imprese è la sola alternativa reale per uscire dalla catastrofe che stiamo vivendo.
Se prima si urla contro il governo dei manganelli nel caso dell’aggressione agli operai Ast di Terni che manifestavano a Roma, qualche giorno dopo si accetta il ricatto della proprietà: fine dello sciopero e sgombero dei picchetti in cambio del pagamento di salari arretrati. Stavolta tuttavia gli operai non hanno creduto all’inganno e hanno sonoramente contestato non solo i delegati di Cisl e Uil, ma lo stesso segretario della Fiom, che ha personalmente cercato di persuaderli sulla bontà dell’accordo.
 
La vera essenza del landinismo concentrata in 130 pagine
Davanti a una piazza come quella del 25 ottobre in cui centinaia di migliaia di manifestanti chiedono a gran voce lo sciopero generale, si accetta la tempistica dilatoria della segreteria Cgil, limitandosi a proclamare uno sciopero di categoria in due date differenti, anziché indire uno sciopero con manifestazione nazionale ancora a Roma, per mettere sotto assedio i palazzi del Potere, imponendo con la forza della mobilitazione il ritiro del Jobs Act e della legge di stabilità, ennesima manovra lacrime e sangue per i lavoratori, e di regalie (“ho visto un sogno quasi realizzato” ha sentenziato il leader di Confindustria, Squinzi) per i padroni. (1)
Queste svariate prese di posizione, dichiarazioni, atti, hanno come filo conduttore l’accettazione “senza se e senza ma” dell’economia di mercato come unico orizzonte possibile per l’umanità. Un orizzonte che, secondo Landini, necessità di una messa a punto, ma al quale non c’è nessuna reale alternativa.
Lo dice chiaramente lo stesso Landini quando nel suo libro afferma che “allora lavoro non significa più soltanto avere un’occupazione qualsiasi… ma acquista importanza la direzione da imprimere a quel lavoro, come dimostra… il fallimento e la sconfitta dei Paesi che con il socialismo avevano concepito la proprietà statale come strumento per risolvere ogni stortura”. (2)
Il segretario Fiom non viene sfiorato nemmeno per un secondo dal fatto che nel 1989-1991 sia fallito non il socialismo ma la sua degenerazione burocratica. E’ ovvio che partendo dal suo presupposto non rimane altra via che il salario minimo per legge, suggerimenti ai gestori dei fondi pensioni privati per come allocare meglio le loro finanze, un allargamento e consolidamento dello strumento della cassa integrazione, ecc.
Un programma che si fatica anche a definire minimamente keynesiano perché se si accetta l’economia di mercato come unica possibilità, nella situazione di crisi senza sbocco per l’economia mondiale, non si possono che avanzare piccoli accorgimenti al cui confronto il New Deal di Roosvelt appare come una misura leninista...
Ovviamente non possiamo escludere che nelle prossime settimane si possa assistere a una svolta più “dura” nell’azione, e non solo nelle rivendicazioni verbali, di Landini o della stessa Cgil (è di queste ore l'annuncio di uno sciopero generale Cgil a inizio dicembre).
Le dinamiche della lotta di classe spingono in alcuni momenti anche i burocrati più conseguenti ad apparire come fieri difensori degli interessi delle masse sfruttate. Ciò non di meno non ci troveremmo, se quanto scritto prima accadesse, davanti a una rottura con le pratiche concertative e rinunciatarie fino a oggi seguite.
Allo stesso tempo è presto immaginare se e quale sbocco avrà il programma landiniano. Molto dipende da come il governo Renzi riuscirà a superare, se ci riuscirà, le difficoltà che cominciano a intralciare la sua azione. Se la legislatura dovesse precipitare in una crisi a oggi improbabile e arrivare alle elezioni anticipate, le sirene per una discesa in campo politica di Landini si farebbero sempre più insistenti.
 
Eppure il "piano perfetto" può fallire
Quello che possiamo dire fin d’ora è che i lavoratori necessitano di qualcosa di meglio.
Non l’ennesima riproposizione di politiche fallimentari circa una riforma più o meno “radicale” del sistema capitalistico, ma la creazione di un vero soggetto politico realmente rivoluzionario, fondato su di un programma che metta all’ordine del giorno una lotta senza quartiere al dominio del capitale e a tutti i suoi governi, siano essi di destra o di presunta sinistra.
Questo ci insegna il fallimento dei due governi Prodi, dei governi Hollande e Jospin in Francia, come quello di Zapatero in Spagna o di Dilma Roussef in Brasile. Sulle macerie di questi fallimenti vanno costruite le basi per la sola alternativa possibile: rivoluzionaria, comunista, internazionalista. Una alternativa da non aspettare passivamente ma da costruire a partire dall'unificazione e dallo sviluppo delle lotte.
 
 
(1) Riguardo al Job Act, Landini afferma: “introdurre un contratto a termpo indeterminato… dove ci può essere un periodo di prova più lunga” in “Gli attacchi del governo e le illusioni perdute della piazza Cgil”, articolo pubblicato sul sito www.alternativacomunista.org
(2) Maurizio Landini, Forza Lavoro, Edizioni Feltrinelli, cap. 5 “Lavoro e salute, un solo diritto” pag. 99.

Venticinque anni fa il delitto perfetto della “Bolognina”

L'articolo di Maurizio Federico pubblicato  anche su "Nuovo Giorno"

Maurizio Federico


Il 12 novembre del 1989, esattamente venticinque anni fa, nei locali della storica sezione comunista della “Bolognina”, dove oggi lavorano dei parrucchieri cinesi, venne commesso uno spietato delitto.  
Quella domenica mattina era stato ucciso, a bruciapelo, il Partito comunista italiano che pure era riuscito a scamparla, per quasi settanta anni, dai tanti che lo volevano morto a tutti i costi: da Mussolini a Scelba, da Tambroni a Gelli, dai golpisti neri ai terroristi di ogni colore.
Dove non erano riusciti tutti quegli emeriti signori  ce la fece, e con una certa facilità, tale Achille Occhetto che di quel partito era nientemeno che il segretario generale. Niente da meravigliarsi, in genere i complotti familiari non solo sono molto frequenti ma anche quelli più facili ad attuarsi. Occhetto rivendicò subito il suo delitto sostenendo la tesi, ardita per la verità, di averlo compiuto nell’interesse della stessa vittima, perché solo così sarebbe vissuta più a lungo e avrebbe avuto uno splendido avvenire!      
Ma come e dove era maturata la decisione di sbarazzarsi del P.C.I.? Solo negli ultimi anni stanno venendo alla luce i retroscena di quel delitto: l’apertura degli archivi   americani, le memorie di qualche ex agente segreto, le rivelazioni di Wikileaks, libri e saggi sull’argomento portano tutte in un'unica direzione: Washington.
Fu quella, infatti, nel maggio del 1989, a pochi mesi, quindi, dalla “Bolognina”, la meta di un viaggio del segretario Achille Occhetto e dell’attuale Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano. Mentre per Occhetto si trattava della sua prima visita negli Stati Uniti d’America, non era la prima invece per Napolitano che, da capo della corrente filo-craxiana e filo-berlusconiana del P.C.I. (i cosiddetti “miglioristi), da oltre un decennio intratteneva rapporti strettissimi con l’ambasciata americana a Roma e, spesso, si recava negli USA, cosa che a tutti gli altri comunisti era preclusa sin dagli anni della “grande crisi” del 1929.
Tra l’altro, è stato scritto e non è stato mai smentito, che i due italiani, in una sera di quel maggio di venticinque anni fa, si ritrovarono a cena, sempre a Washington, con un ex capo della CIA, William Casey, che era solito ripetere, quando era in servizio a Roma, che la missione della sua vita era “schiantare il Partito comunista italiano”!
Tutto chiaro? Non ancora! Resta tuttora un mistero il fatto che Achille Occhetto, che pure aveva fatto il grosso del “lavoro sporco”, dopo la fine del P.C.I. venne subito messo da parte mentre al suo compagno di viaggio in America, Giorgio Napolitano, si aprirono da quel momento le strade di una luminosissima carriera fatta di Presidenze della Camera dei deputati, di Ministeri importanti e, perfino, di quel doppio mandato di Presidente della Repubblica che dura ancora oggi!

















martedì 11 novembre 2014

Che fine ha fatto :“del popolo, dal popolo, per il popolo”?

Zephyr Teachout

Pochi mesi fa, di mattina presto, quando ero  ancora candidata alla carica di governatore di New York, ho incontrato un uomo che parlava da solo, agitato e ad alta voce. Quando l’ho superato sul marciapiede, si è voltato verso di me e ha iniziato a borbottare un misto di insulti e di brevi frasi. E poi, proprio mentre stavo per scomparire giù per le scale verso la metropolitana, ha urlato a pieni polmoni:
Io sono il capitano della mia nave. Io sono il padrone della mia anima.
Ero sconvolta e non poco commossa. Questo uomo rappresenta tutti noi, e asserisce che abbiamo ancora il controllo su noi stessi malgrado le ovvie prove contrarie.
Dato che stavo andando a un evento politico, ho sentito questo maggiormente. Noi – l’America – siamo quell’uomo che urla contro il nostro autogoverno, il trasmettere notizie  su queste elezioni, cercando di opporci a questa semplice, terrificante verità: non siamo governati da noi stessi. Abbiamo rinunciato al controllo della nave.
Gli Stati Uniti stanno sperimentando più disuguaglianza di quella che c’è stata in 80 anni. Abbiamo creato sempre maggiore divisioni razziali nelle scuole, e abbiamo un numero sempre minore di posti di lavoro buoni, e c’è più fame, paura e impotenza. Gli interessi di poche ricchissime persone  - la ricchezza è così nascosta e concentrata che le cifre sono difficili da analizzare – hanno chiarito che intendono continuare a togliere  al nostro paese le sue risorse e prenderle per se stessi. L’1% possiede più di un terzo della ricchezza che esiste in America, e 4 anni fa, la decisione dell’organizzazione Citizen United ha dato il permesso costituzionale che l’America delle grosse aziende entrasse spudoratamente in politica.
Ora, di fronte a questa società che sta rapidamente cerando separazioni, i giornalisti politici americani affrontano la difficile sfida di occuparsi di politica quando questa è fondamentalmente cambiata. Fanno i loro servizi su una democrazia o su un’oligarchia? Nella frenesia che ha preceduto le elezioni di martedì (4 novembre, n.d.t.) questa dualità è stata particolarmente visibile, quando, a un certo punto, i giornalisti parlano del fatto che questo o quel candidato manca di “carisma”, e cinque minuti dopo scrivono su come, in realtà, il fatto che sia accettabile per i grossi finanziatori è l’unico elemento determinante di chi si mette in lizza per una carica.
Questa primavera, uno studio fatto da professori dell’università di Princeton e della università Northwestern, riferiva che le preferenze degli elettori erano essenzialmente irrilevanti nel determinare quali politiche perseguivano i funzionari eletti da loro. Per questo ciclo elettorale di medio termine sono stati spesi circa 3,67 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali provenienti da una piccola frazione di grossi interessi;  ci si aspetta che l’affluenza sarà bassa.
Gli americani sentono questa separazione. Mentre ci sono molte teorie riguardo al disgusto e all’apatia per questa elezione, forse è semplicemente questo: alla gente non piace che gli venga detto falsamente che ha il potere mentre non lo ha.
Questo significa che c’è un argomento che sussume tutti gli altri da cui dipendono tutti gli altri problemi – ed è ripristinare la democrazia stessa. Se non abbiamo una democrazia sensibile, tutti i dibattiti sulle scuole private  sovvenzionate con denaro pubblico (“charter schools),  sulla fratturazione idraulica, e gli high-stakes testing , la militarizzazione delle forze di polizia – mi preoccupo di tutti questi problemi – non sono dibattiti reali. Quando le elezioni non sono democratiche, anche le discussioni più populiste diventano superficiali, scollegate dal potere reale; sono teatro.
Forse posso convincere il 70% dei cittadini di New York ad appoggiare un’imposta sulle transazioni finanziarie, ma se non c’è una democrazia sensibile, quella percentuale non si tradurrà in un’imposta  sulle transazioni finanziarie. Mi preoccupo delle cure odontoiatriche e di mettere fine alla massiccia sorveglianza pubblica e privata e di finanziare le scuole in modo che possano avere classi poco numerose. Ma posso passare tutta una vita a difendere le cure odontoiatriche per tutti, ma in una democrazia non sensibile, non importa. Forse vi ricordate del 90% di americani che voleva la riforma sull’uso privato delle armi, in seguito alla tragedia di Sandy Hook, ma non l’ha ottenuta. La pubblica opinione senza il potere pubblico  ora modifica  qualsiasi argomento in America.
Dobbiamo quindi tenerci saldamente attaccati a qualsiasi leva di potere che ci è rimasta. Abbiamo bisogno di un movimento populista con candidati, proteste e richieste chiare che abbiano due fondamentali fronti:
Eliminare il sistema attuale di campagne finanziate privatamente e adottare un sistema di finanziamento pubblico come quelli usati a New York City, nel Connecticut, Arizona, Maine e nella maggior parte delle democrazie moderne in Europa.
La chiave per correggere i finanziamenti pubblici è di liberare la politica dai grandi capitali. Lo stato di New York e poi gli Stati Uniti – potrebbero adottare il sistema della città di New York che fornisce 6 dollari di finanziamento per ogni dollaro versato come piccola donazione. Oppure il paese potrebbe seguire l’esempio del sistema adottato in Connecticut, che fornisce una somma forfettaria. Quello che importa è che dobbiamo dispensare i politici dal lavorare per i loro benefattori.
Molti democratici  in tutto il paese non possono opporsi alla fratturazione perché consumerebbe la base dei loro benefattori. Non possono difendere coraggiosamente i sindacati degli insegnanti perché il sostegno ai fondi speculativi si prosciugherebbe. E se vogliono accettare una piattaforma  senza avere nessuna paura, i candidati sono costretti a trovare quella magica e rara attenzione nazionale che crea un’enorme base di donatori online. Succede. So che succede. Ma non è un sistema. Non possiamo contare su un caso fortuito perché la democrazia funzioni.
Roviniamo i trust facendola finita con le grosse società che stanno minacciando la nostra democrazia
E’ necessario ripristinare le normative anti-trust perché non possiamo avere il potere privato concentrato che inizia a diventare potere pubblico. Dobbiamo fermare la fusione di  e Time  Comcast e Time Warner e porre fine alla pratiche discriminatorie di Amazon, e dobbiamo rovinare le grosse banche.
Nel campo bancario, dell’energia, del gas, delle televisioni via cavo, dell’agricoltura, della ricerca, abbiamo un numero limitato di compagnie che hanno accumulato così tanto potere che agiscono come una specie di governo ombra, controllando la politica, ponendo veti alle  leggi perfino prima che possano essere presentate. I candidati si rifiutano di fare campagna elettorale su a una fusione con una TV via cavo perché hanno paura di essere lasciati fuori dall’MSNBC (un canale televisivo statunitense via cavo, n.d.t.)  Non competono con le grosse banche perché queste sono diventate troppo grandi per fallire, per mettere in carcere  e anche  per discutere di politica.
Possiamo continuare a protestare contro la nostra democrazia, malgrado i fatti, o possiamo realmente occuparci della causa alla radice: la ricchezza concentrata che si prende  il controllo della nostra politica. E, come le migliori generazioni di riformatori americani prima di noi, possiamo cambiare le strutture fondamentali. Possiamo realmente cambiare qualcosa, e la gente si riprenderà il potere.
*E’ un Aforisma di Abramo Lincoln: “La democrazia è il governo del popolo, dal popolo, per il popolo”.

Dov'è la festa?

Luciana Castellina. fonte http://www.sbilanciamoci.info/

Un pezzetto di quel muro caduto 25 anni fa ce l’ho ancora sulla mia scri­va­nia: un fram­mento di into­naco colo­rato che strap­pai con le mie mani quando accorsi anche io a Ber­lino men­tre ancora, a frotte, quelli dell’est eson­da­vano verso l’agognato Occi­dente. Furono gior­nate gio­iose attorno a quel sim­bolo di una guerra – quella fredda – che era scop­piata meno di due anni dopo la fine di quella calda.
Per oltre quarant’anni quella fron­tiera, e già molto prima che fosse eretto il muro, l’avevo attra­ver­sata solo ille­gal­mente: negli anni ’50 per­ché il mio governo non mi dava un pas­sa­porto valido per i paesi oltre la cor­tina di ferro (dove­vamo rima­nere chiusi nell’area della Nato) e per­ciò per par­larsi con tede­schi della Ddr, unghe­resi o bul­gari si pren­deva il metro a Ber­lino e dall’altra parte ti for­ni­vano una sorta di pas­sa­porto posticcio.
Poi, dopo la costru­zione del muro, quando noi pote­vamo legal­mente andare ad est e invece quelli di Ber­lino est non pote­vano più venire a ovest, ridi­ven­tammo clan­de­stini: per potere incon­trare, senza incap­pare nella sor­ve­glianza della Stasi, i nostri com­pa­gni paci­fi­sti del blocco sovie­tico, dis­si­denti rispetto ai loro regimi, ma con­vinti che a una evo­lu­zione demo­cra­tica non sareb­bero ser­viti i mis­sili per­ché solo il disarmo e il dia­logo avreb­bero potuto facilitarla.
Per que­sto, gioia in quell’autunno dell’89 e anche un po’ di orgo­glio per il merito che per que­sto esito aveva avuto anche il nostro movi­mento paci­fi­sta, l’End «per un’Europa senza mis­sili dall’Atlantico agli Urali». Ave­vamo pro­dotto una deter­renza poli­tica, con­tri­buendo ad iso­lare chi, per abbat­tere il muro, avrebbe voluto sce­gliere la più sbri­ga­tiva via delle bombe.
E però l’89 non fu solo gio­iosa rivo­lu­zione liber­ta­ria. Fu un pas­sag­gio assai più ambi­guo, gra­vido di con­se­guenze, non tutte mera­vi­gliose. Oggi è anche più chiaro, e così l’avverto dolo­ro­sa­mente nella memo­ria che evoca in me. Peral­tro quel 9 novem­bre di 25 anni fa per me, credo per tanti, non è dis­so­cia­bile dalle date che segui­rono di pochi giorni: il 12 novem­bre, quando Achille Occhetto, alla Bolo­gnina, disse che il Pci andava sciolto; il 14, quando ce lo comu­nicò uffi­cial­mente alla trau­ma­tica riu­nione della dire­zione del par­tito di cui, dopo che il Pdup era con­fluito nel Pci, ero entrata a far parte. Così impo­nen­doci – a tutti – la ver­go­gna di pas­sare per chi sarebbe stato comu­ni­sta per­ché si iden­ti­fi­cava con l’Unione sovie­tica e le orri­bili demo­cra­zie popo­lari che essa aveva creato.
Non c’era biso­gno della caduta del muro per con­vin­cersi che quello non era più da tempo il modello dell’altro mondo pos­si­bile che vole­vamo, non solo per noi che ave­vamo dato vita al Mani­fe­sto, ovvia­mente, ma nem­meno più per la stra­grande mag­gio­ranza degli iscritti al Pci e dei suoi elettori.
Ma non si trat­tava sol­tanto della sini­stra ita­liana, il muta­mento che segnò l’89 ha avuto por­tata assai più vasta: è in quell’anno che si può datare la vit­to­ria a livello mon­diale di que­sta glo­ba­liz­za­zione che tut­tora viviamo, acce­le­rata dalla con­qui­sta al domi­nio asso­luto del mer­cato di quel pezzo di mondo che pur non essendo riu­scito a fare il socia­li­smo gli era tut­ta­via rima­sto estraneo.
Ci fu, certo, libe­ra­zione da regimi diven­tati oppres­sivi, ma solo in pic­cola parte per­ché non aveva vinto un largo moto ani­mato da un posi­tivo dise­gno di cam­bia­mento: c’era stata, piut­to­sto, la bru­tale ricon­qui­sta da parte di un Occi­dente che pro­prio in que­gli anni, con Rea­gan, Tat­cher, Kohl, aveva avviato una dram­ma­tica svolta rea­zio­na­ria. Al dis­sol­versi del vec­chio sistema si fece strada, arro­gante e per­va­sivo, il capi­ta­li­smo più sel­vag­gio, sra­di­cando valori e aggre­ga­zioni nella società civile, lasciando sul ter­reno solo ripie­ga­mento indi­vi­duale, egoi­smi, cor­ru­zione, vio­lenza. Il corag­gioso ten­ta­tivo di Gor­ba­ciov non era riu­scito, il suo par­tito, e la società in cui aveva regnato, erano ormai decotte e rima­sero passive.
E così il paese anzi­ché demo­cra­tiz­zarsi divenne preda di un furto sto­rico colos­sale, ci fu un vero col­lasso che privò i cit­ta­dini dei van­taggi del brutto socia­li­smo che ave­vano vis­suto senza che potes­sero godere di quelli di cui il capi­ta­li­smo avrebbe dovuto essere por­ta­tore. (A pro­po­sito di demo­cra­zia: chissà per­ché nes­suno, mai, ricorda che solo tre anni dopo Boris Eltsin, che aveva liqui­dato Gor­ba­ciov, arrivò a bom­bar­dare il suo stesso Par­la­mento col­pe­vole di non appro­vare le sue proposte?).
Come scrisse Eric Hob­sbawm nel ven­te­simo anni­ver­sa­rio del crollo «il socia­li­smo era fal­lito, ma il capi­ta­li­smo si avviava alla ban­ca­rotta».
Avrebbe potuto andare diver­sa­mente? La sto­ria, si sa, non si fa con i se, ma riflet­tere sul pas­sato si può e si deve ( e pur­troppo non lo si è fatto che in minima parte).

E allora è lecito dire che c’erano altri pos­si­bili sce­nari e che se la sto­ria ha preso un’altra strada non è per­ché il «destino è cinico e baro», ma per­ché a quell’appuntamento di Ber­lino si è giunti quando si era già con­su­mata una sto­rica scon­fitta della sini­stra a livello mon­diale. L’89 è una data che ci ricorda anche questo.
Le respon­sa­bi­lità sono mol­te­plici. Per­ché se è vero che il campo sovie­tico non era più rifor­ma­bile e che una rot­tura era dun­que indi­spen­sa­bile, altro sarebbe stato se i par­titi comu­ni­sti , in Ita­lia e altrove, aves­sero avan­zato una cri­tica aperta e com­ples­siva di quell’esperienza già vent’anni prima, invece di limi­tarsi – come avvenne nel ’68 in occa­sione dell’invasione di Praga – a par­lare solo di errori.
In que­gli anni i rap­porti di forza sta­vano infatti posi­ti­va­mente cam­biando in tutti i con­ti­nenti ed era ancora ipo­tiz­za­bile una uscita da sini­stra dall’esperienza sovie­tica, non la capi­to­la­zione al vec­chio che invece c’è stata. E così nell’89, anzi­ché avviare final­mente una vera rifles­sione cri­tica, si scelse l’abiura, che avallò l’idea che era il socia­li­smo che pro­prio non si poteva fare.
Gor­ba­ciov restò così senza inter­lo­cu­tori per por­tare avanti il ten­ta­tivo di dar almeno vita, una volta spez­zata la cor­tina di ferro, a una diversa Europa. Un’ipotesi che aveva per­se­guito con tena­cia, offrendo più volte lui stesso alla Ger­ma­nia la riu­ni­fi­ca­zione in cam­bio della neu­tra­liz­za­zione e denu­clea­riz­za­zione del paese.
Fu l’Occidente a rifiu­tare. Mancò all’appello, quando uni­la­te­ral­mente il pre­si­dente sovie­tico diede via libera all’abbattimento della cor­tina di ferro, il più grande par­tito comu­ni­sta d’occidente, quello ita­liano, fret­to­lo­sa­mente appro­dato all’atlantismo e impe­gnato ad accan­to­nare, quasi con irri­sione, il ten­ta­tivo di una “terza via” fon­data su uno scio­gli­mento dei due bloc­chi avan­zata da Ber­lin­guer alla vigi­lia della sua morte improvvisa.
E mancò la social­de­mo­cra­zia, che aveva in quell’ultimo decen­nio mar­gi­na­liz­zato gli uomini che pure si erano con lun­gi­mi­ranza bat­tuti per una diversa opzione: Brandt, Palme, Foot, Krei­ski. È così che l’89 ci ha con­se­gnato un’altra scon­fitta, quella dell’Europa. Che perse l’occasione di costruirsi final­mente un ruolo e una sog­get­ti­vità auto­nome, quella “Casa comune euro­pea” che Gor­ba­ciov aveva soste­nuto e indi­cato, e che trovò solo un sim­pa­tiz­zante – ma debo­lis­simo — in Jaques Delors, allora pre­si­dente della Com­mis­sione europea.
Nell’89 l’Unione Euro­pea avrebbe final­mente potuto coro­nare l’ambizione di libe­rarsi dalla sud­di­tanza ame­ri­cana che l’esistenza dell’altro blocco mili­tare aveva faci­li­tato, e invece si ritrasse quasi spa­ven­tata. Avvian­dosi negli anni suc­ces­sivi lungo la disa­strosa strada indi­cata dalla Nato: ricon­durre al vas­sal­lag­gio le ex demo­cra­zie popo­lari per poter esten­dere i pro­pri con­fini mili­tari fino a ridosso della Russia.
Non andò molto meglio nep­pure in Ger­ma­nia. Anche qui ci fu certo la grande gioia della riu­ni­fi­ca­zione del paese che aveva vis­suto la dolo­ro­sis­sima ferita della divi­sione, ma anche qui, più che di un nuovo ini­zio, si trattò di una annes­sione con­dotta secondo le regole di un bru­tale vincitore.
A 25 anni di distanza la disu­gua­glianza fra cit­ta­dini tede­schi dell’ovest e dell’est è più pro­fonda di quella fra nord e sud d’Italia, per­ché la «Treu­hand» inca­ri­cata di pri­va­tiz­zare quanto era pub­blico nell’economia della Ddr pre­ferì azze­rare le imprese per lasciar il campo libero alla con­qui­sta di quelle della Rft. Cin­que anni fa nel com­me­mo­rare il crollo del muro il set­ti­ma­naleSpie­gel rese noti i risul­tati di un son­dag­gio: il 57% degli abi­tanti della ex Ger­ma­nia dell’est – che dio solo sa quanto era brutta – ne ave­vano nostalgia.
Oggi pro­ba­bil­mente quella che viene chia­mata «Ostal­gie» è cre­sciuta. (Fra i miei ricordi c’è anche una cena con Willi Brandt non molto tempo prima della sua scom­parsa: tor­nava da un giro ad est in occa­sione della prima cam­pa­gna elet­to­rale del paese riu­ni­fi­cato ed era deso­lato per come la riu­ni­fi­ca­zione era stata con­dotta. La Spd non aveva del resto nasco­sto, sin dall’inizio, la sua con­tra­rietà a come era stato avviato il processo).
Per tutte que­ste ragioni non con­di­vido la spen­sie­rata (agio­gra­fica) festo­sità che accom­pa­gna, anche a sini­stra, la cele­bra­zione del crollo del Muro. Soprat­tutto per­ché – e que­sta è forse la cosa più grave – l’89 è anche il tempo in cui per milioni di per­sone prende fine la spe­ranza – e per­sino la voglia – di cam­biare il mondo, quasi che il socia­li­smo sovie­tico fosse stato il solo modello pra­ti­ca­bile. E via via è finita per pas­sare anche l’idea che tutto il secolo impe­gnato a costruirlo anche da noi era stata vana per­dita di tempo.
Un colpo duris­simo inferto alla coscienza e alla memo­ria col­let­tiva, alla sog­get­ti­vità di donne e uomini che per que­sto ave­vano lot­tato. E nes­suno sforzo per riflet­tere cri­ti­ca­mente su cosa era acca­duto per trarre forza in vista di un più ade­guato nuovo pro­getto. Non è un caso che anche i poste­riori ten­ta­tivi di dar vita a nuovi par­titi di sini­stra abbiano pro­dotto for­ma­zioni tanto impa­stic­ciate: per­ché inca­paci di fare dav­vero i conti con la sto­ria. E per­ciò qual­che rista­gno ideo­lo­gico o la resa a un pen­siero unico che indica il capi­ta­li­smo come solo oriz­zonte della storia.
Nel dire que­ste parole amare rischio come sem­pre di fare la nonna noiosa che con­ti­nua a rimu­gi­nare sul pas­sato senza guar­dare al pre­sente. So bene che ci sono oggi nuovi movi­menti ani­mati da gene­ra­zioni nate ben dopo la famosa sto­ria del Muro che si pro­pon­gono a loro modo di inven­tarsi un mondo diverso.
Ma non mi ras­se­gno a subire senza rea­gire il disin­te­resse che avverto in tanti di loro per il nostro pas­sato, non per­ché vor­rei ci assol­ves­sero dai nostri errori, ma per­ché non sono con­vinta si possa andar lon­tano se non si ha rispetto sto­rico per quanto di eroico e corag­gioso, e non solo di tra­gico, c’è stato nei grandi ten­ta­tivi, pur scon­fitti, del ‘900; se non si avverte quanto misera sia l’enfasi posta oggi su un’idea di libertà — quella uffi­cial­mente cele­brata in que­sto ven­ti­cin­quen­nale del Muro — così meschina da appa­rire arre­trata per­sino rispetto alla rivo­lu­zione fran­cese dove almeno era stato aggiunto ugua­glianza e fra­ter­nità, ormai con­si­de­rati obiet­tivi pue­rili e con­tro­pro­du­centi: il mer­cato, infatti, non li può sopportare.
Non ho molta cre­di­bi­lità nel pro­porre la crea­zione di par­titi, l’ho fatto troppe volte nella mia vita e non con straor­di­na­rio suc­cesso. E tut­ta­via ora ne vor­rei dav­vero fare uno: il par­tito dei nonni. Non per­ché inse­gnino ai gio­vani cosa devono fare, per carità, ma per­ché vor­rei che almeno due gene­ra­zioni uscis­sero dal muti­smo in cui hanno finito per rin­chiu­dersi, inti­mi­diti da rot­ta­ma­tori di destra e di sinistra.
Vor­rei che ripren­des­sero la parola, riac­qui­stas­sero sog­get­ti­vità: per dire che sulla sto­ria di prima del crollo del muro vale la pena di riflet­tere, per­ché si tratta di una sto­ria piena di ombre, ma anche di espe­rienze straor­di­na­rie ( a comin­ciare dalla rivo­lu­zione d’ottobre di cui giu­sta­mente Ber­lin­guer disse che aveva perso la sua spinta pro­pul­siva, non che era meglio non farla). But­tare tutto nel cestino signi­fica ince­ne­rire ogni vel­leità di cam­bia­mento, di futuro.
Per finire: da quando è caduto il muro di Ber­lino ne sono stati eretti altri mille, mate­riali (Messico/Usa; Israele/Palestina, Pakistan/India .….ultimo Ucraina/Russia) e non (vedi la disu­gua­glianza glo­bale e i muri euro­pei «a mare» nel Medi­ter­ra­neo e di terra a Melilla, con­tro i migranti). Non pro­prio una festa.

PARTE L’AUTUNNO CALDO NELLA VALLE DEL SACCO

 Associazioni e comitati promotori della campagna RIFIUTIAMOCI


29 NOVEMBRE 2014
ore 14.00 - piazzale biblioteca comunale - Colleferro

MANIFESTAZIONE PER LA SALVAGUARDIA DEL TERRITORIO E DELLA SALUTE


Continuano le attività della “Campagna Rifiutiamoci” che in questi mesi ha visto associazioni, comitati, movimenti, forze politiche e singoli cittadini della Valle del Sacco impegnati per la salvaguardia del territorio, dell’ambiente e della salute: al centro della campagna c’è la forte opposizione all’attuale gestione del ciclo dei rifiuti, obsoleta e responsabile della grave emergenza ambientale e sanitaria.
In molti comuni della zona dove Lazio Ambiente gestisce i rifiuti, le percentuali di raccolta differenziata raggiungono livelli irrisori mentre quelle elevate si possono leggere soltanto negli studi epidemiologici e nei rapporti sanitari, come lo studio Eras e Sentieri.
A Colleferro, nell’ultimo periodo, la campagna ha promosso la proposta di Referendum avanzata dall’opposizione consiliare sul progetto TMB, iniziativa che fino ad ora ha raccolto circa 2.000 firme. Nell’ambito della stessa campagna, inizia ora un periodo di mobilitazione a Colleferro e nei paesi limitrofi mossi dalla volontà di essere inseriti nei processi decisionali riguardanti la salute della comunità.

Dichiarano gli attivisti -Non ci accontentiamo di annunci, dichiarazioni sui giornali o promesse di cambiamento ma  esigiamo una vera svolta sostenibile che finalmente possa rendere giustizia alla popolazione di un territorio vittima di crimini ambientali che hanno compromesso terra, aria e salute. Una svolta che non abbia più niente a che fare con le scelte scellerate dettate da chi per anni è stato complice, colpevole e responsabile di questa criminosa ed insalubre gestione dei rifiuti. Pretendiamo da parte delle istituzioni provvedimenti che portino ad un miglioramento della situazione ambientale e di quella sanitaria della nostra zona specialmente alla luce della precaria condizione delle Asl e degli ospedali dei nostri comuni. Faremo sentire la nostra voce e la nostra presenza nelle strade e manifesteremo le nostre ragioni in un corteo a Colleferro il 29 novembre. Il progetto di TMB, voluto dalla Regione Lazio, da Lazio Ambiente S.p.A. e dal Comune di Colleferro, rappresenta una scelta presa dall’alto che non ci rappresenta e che non consentirà di attivare un ciclo virtuoso dei rifiuti.
Le forze ambientaliste e sociali non possono accettare l’impianto TMB a Colleferro perché la sua costruzione significa praticamente mantenere attivi  due vecchi inceneritori e la discarica di colle Fagiolara.
Per questo pretendiamo un cambiamento radicale di rotta, che vada verso un sistema economico “circolare”  a sostegno di una crescita sostenibile e di una gestione virtuosa dei rifiuti, come ribadito dall’Unione europea, nei programmi Rifiuti Zero nel 2020.

Chiediamo come priorità l’avvio immediato di una campagna di informazione ambientale sulle modalità, i benefici ed i vantaggi della raccolta differenziata, l’attivazione del porta a porta e l’adozione di strumenti efficaci da attuare sul territorio come il compostaggio di comunità e la tariffa puntuale.
Il 29 novembre si avvicina : vi aspettiamo in via Carpinetana sud sotto la sede di Lazio Ambiente S.p.A., parcheggio della Biblioteca Comunale di Colleferro.
Il corteo partirà alle ore 14.


PARTECIPIAMO NUMEROSI!

F.to
Associazioni e comitati promotori della campagna RIFIUTIAMOCI

Lo scandalo: Davide Serra fa un sacco di soldi con il fallimento Monte dei Paschi

fonte: http://www.senzasoste.it/

Questo articolo è dedicato all’elettorato Pd. Quello che vota Renzi e si fa vuotare le tasche, oltre che dal fenomeno di Rignano, da Davide Serra. Si, proprio lui, l’amministratore delegato del fondo Algebris, che ha la gigantografia di Mandela in ufficio a Londra, comprata ad un’asta dove c’era Angela Merkel, e che chiede di sanzionare chi fa sciopero in Italia. Insomma lo sponsor finanziario più noto di Matteo Renzi.
Come è conosciuto nel mondo dei broker Davide Serra? Come un ribassista che fa vendite allo scoperto. Che cosa significa? Semplice, significa che Serra acquista l’obbligo di vendita di azioni, o obbligazioni, ad un determinato prezzo e ad una determinata data. Senza avere azioni od obbligazioni in mano. Se a quella data le azioni, o le obbligazioni, fissate saranno ad un prezzo più basso, di quanto precedentemente determinato, Serra potrà comprare sul mercato e rivendere, guadagnandoci. Facciamo un esempio: Serra contrae, come accade su tutti i mercati da decenni, un accordo con promessa di vendita di azioni MPS a 100 euro l’una. Senza avere in mano una azione MPS. Il giorno in cui questa promessa dovrà essere mantenuta se le azioni MPS avranno valore, facciamo un esempio, 80 il nostro Serra avrà guadagnato senza spendere un euro. Si fa cosi: si prende il contratto di vendita, si fanno comprare le azioni a 80 da una banca, qui la facciamo semplice, poi si incassa, come da obbligo contrattuale, 100, e si paga una commissione alla banca. Ed ecco guadagno pulito senza aver avuto un euro in tasca prima dell’acquisto di titoli MPS prima di venderli.
Grosso modo è quello che è accaduto realmente, quando Serra ha incassato forti dividendi dal crollo in borsa di MPS. Conosciamo naturalmente il nostro bischero per eccellenza, l’elettore Pd, già pronto a raccontarci che sono questioni di mercato e che le istituzioni non possono farci niente. Naturalmente non è vero: possono, anzi potevano, farci molto sia la vigilanza bancaria che il governo. Due esempi rapidi. Uno, guardiamo cosa può fare in questi casi la Consob
La vigilanza bancaria può segnalare la posizione di vendita ribassista allo scoperto, e la Consob qui lo ha fatto prima che il titolo crollasse. Ma può fare anche un’altra cosa: può direttamente vietare la vendita allo scoperto per impedire comportamenti speculativi. La Consob naturalmente non ha vietato nulla, il titolo MPS ha finito di crollare e Serra ha guadagnato. Cosa poteva fare il governo? Elementare Watson, tutelare i risparmiatori MPS, e i contribuenti che dovranno ripianare la voragine di Siena, anche con un semplice effetto annuncio. Anche solo portando il presidente del consiglio davanti ai microfoni, gesto che gli riesce benissimo, per dichiarare che si sarebbe fatto di tutto per salvare MPS. In modo da far risalire il titolo e contenere i danni sia ai risparmiatori che ai contribuenti.
Ma Davide Serra, l’uomo che ha guadagnato (come da posizione ribassista rilevata dalla Consob) dal crollo è anche il grande sponsor di Renzi. Presidente del consiglio che si è badato bene dal rilasciare dichiarazioni in grado di alzare il titolo MPS. E anche di investire pubblicamente, con qualche richiesta di informativa resa pubblica, proprio la Consob del problema del titolo MPS. A fare da complice alla coppia Serra-Renzi il comune amico Lorenzo Bini Smaghi, banchiere fiorentino già membro del board della Bce, che va a giro per i talk-show a dichiarare, per depistare sulle emergenze nazionali, che non sono le banche il vero problema per l’Italia. Di sicuro le banche non sono un problema per i tre amici che, dalla crisi del sistema bancario nazionale, ci guadagnano e non poco sia pure a diverso titolo.
Insomma che cosa è Palazzo Chigi oggi? E' il più gigantesco covo di insider trading del paese. Un covo dove si detengono informazioni riservate, ad esempio, su MPS e, guarda te il caso, dove gli amici del presidente del consiglio su MPS finiscono per guadagnarci. Una volta poi smantellato il sistema locale del credito in Toscana poi qualcuno paghera’: contribuenti e rispamiatori ad esempio. Bravi bischeri che votate Pd continuate così: votate chi lascia, noi e voi, in mutande. In nome delle cazzate della Leopolda, la sfilata delle ministre e di proposte politiche vecchie almeno di 15 anni. Proposte che solo al bischero che vota PD possono sembrare nuove.
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