Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

venerdì 10 giugno 2022

Un salario meno che minimo: una farsa europea

 Fonte: Coniare rivolta




La vicenda della direttiva europea sul salario minimo è un ottimo esempio di quello che le istituzioni europee possono fare in concreto per migliorare la vita dei lavoratori: nulla. L’esempio è istruttivo per due ragioni, una di merito ed una di metodo, strettamente intrecciate tra loro.

La ragione di metodo discende dal tortuoso percorso seguito dalla bozza di direttiva, proposta dalla Commissione europea nel 2020, poi sottoposta ad una lunga consultazione e, nella notte tra il 6 e il 7 giugno scorsi, fatta oggetto di un accordo tra i due legislatori europei, il Parlamento europeo ed il Consiglio dell’UE. Per comprendere questo lungo e (come vedremo) inconcludente percorso legislativo siamo costretti a scavare nelle fondamenta dell’Unione europea, e cioè in quei Trattati istitutivi che ne disciplinano le funzioni essenziali, i poteri e le competenze.

Il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, al Titolo X dedicato alla Politica Sociale, menziona nell’art. 151 il “miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro” tra gli obiettivi dell’Unione. Un principio molto nobile, che trova la sua articolazione nel successivo art. 153, secondo cui l’Unione persegue tale obiettivo sostenendo e completando l’azione degli Stati membri in una serie di settori che include, al paragrafo 1, lettera b, le “condizioni di lavoro”.

In questo settore, prosegue il paragrafo 2, lettera b del medesimo articolo, i legislatori europei “possono adottare … mediante direttive, le prescrizioni minime applicabili progressivamente”. In altri termini, l’Unione europea può intervenire in tema di condizioni di lavoro con una direttiva, cioè con uno strumento normativo che vincola solamente nell’obiettivo (si parla qui di “prescrizioni minime applicabili”), lasciando libero ogni Stato membro di raggiungerlo con il percorso normativo più idoneo al proprio assetto istituzionale. Tutto lascerebbe intendere che vi sia lo spazio per fissare, come ci stanno raccontando in queste ore, un salario minimo europeo, che sarebbe un prezioso strumento di tutela del lavoro, un argine al cosiddetto lavoro povero.

Peccato che lo stesso art. 153 si concluda con il paragrafo 5, che recita testualmente: “Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle retribuzioni, al diritto di associazione, al diritto di sciopero né al diritto di serrata.” Non si poteva essere più chiari, più espliciti, più netti di così nel definire il perimetro entro cui l’Unione europea esercita il suo potere vincolante nei confronti degli Stati membri. Nessuna ingerenza dell’Unione è prevista nella determinazione delle retribuzioni e nei più fondamentali diritti di associazione sindacale e di sciopero.

Basta dunque leggere i Trattati che disciplinano il funzionamento dell’Unione europea per capire che una direttiva in tema di salario minimo può essere solo un esercizio di stile, una roboante dichiarazione di principi sulla necessità di garantire condizioni di vita dignitose ai lavoratori europei e nulla più. Ed infatti, leggendo il comunicato stampa del Consiglio dell’UE sull’accordo raggiunto con il Parlamento europeo, apprendiamo che la direttiva si comporrà di due pilastri, uno più ridicolo dell’altro.

Il primo pilastro riguarda i Paesi membri che hanno già un salario minimo nella loro legislazione, e richiede (tenetevi forte!) che questi “realizzino uno schema procedurale per fissare ed aggiornare questo salario minimo secondo un insieme di criteri chiari.” Questo serve a capire cosa sia il nulla di cui parlavamo prima: un mero esercizio metodologico da offrire in pasto alla burocrazia europea per mostrare che la fissazione del salario minimo, lì dove è già normata, segua un qualche criterio formalmente accettabile.

Ma il nulla non finisce qui. L’adeguamento del salario minimo all’inflazione – un tema caldissimo in un frangente in cui la rincorsa dei prezzi ai costi dell’energia divora il potere d’acquisto dei salari – dovrà avvenire “al più tardi ogni quattro anni per i Paesi che individuano un meccanismo di indicizzazione automatica”, mentre per i paesi che non si doteranno dell’indicizzazione questo periodo dovrebbe essere di due anni. Anche se non si capisce a cosa farebbe riferimento questa indicizzazione (per chi ce l’ha…), non ci vuole un dottorato in economia per capire che un adeguamento completo dei salari ai prezzi calibrato su un orizzonte temporale così esteso – fino a quattro anni! – equivale ad una perdita secca. Fatichi ad arrivare alla fine del mese? Fatti coraggio, alla fine del quadriennio ci sarà un adeguamento del salario minimo all’inflazione!

Il secondo pilastro riguarda quei Paesi in cui la contrattazione collettiva copre meno dell’80% dei lavoratori, e richiede (allacciate le cinture!) che questi “definiscano un piano d’azione per la promozione della contrattazione collettiva”. Di nuovo, imperativamente, il nulla.

Su questi due pilastri, se così possiamo chiamarli, Consiglio dell’UE e Parlamento europeo stanno definendo gli ultimi dettagli della direttiva che dovrà poi essere votata da entrambe le istituzioni. A quel punto…bé, per questa rivoluzione occorrerà aspettare ancora un po’: è lo stesso comunicato stampa del Consiglio UE a confessare che “gli Stati membri avranno a disposizione due anni per trasporre la direttiva nella legislazione nazionale”. Insomma, l’Unione europea ha preso il coraggio a quattro mani e ha abbozzato una direttiva che chiede per favore agli Stati membri – ma solo a quelli che hanno già un salario minimo – di adeguare quel salario minimo all’inflazione in qualche maniera tra circa sei anni. Davvero, come dice il Partito Democratico, “un passo decisivo per la costruzione dell’Europa sociale”.

Se tutto questo non bastasse a dimostrare l’assoluta inconsistenza della proposta europea in tema di salario minimo, provate a mettervi nei panni di un lavoratore a) così sfortunato da vivere in un Paese europeo in cui non c’è alcuna normativa sul salario minimo e b) così fortunato da vivere in un Paese in cui la contrattazione collettiva copre già più dell’80% dei lavoratori. Già, stiamo parlando proprio dell’Italia, un Paese a cui non si applica nessuno dei due “pilastri” della nuova e folgorante direttiva europea. Una direttiva che non impone l’introduzione del salario minimo ai Paesi che non hanno previsto questo strumento e non impone alcun rafforzamento della contrattazione collettiva ai Paesi che hanno già un sufficiente grado di copertura. Insomma, una direttiva completamente inutile per i lavoratori italiani.

L’obiettivo è vago, non c’è alcun vincolo su modi e tempi, né meccanismi di verifica condivisi. È una misura fatta per non incidere su nulla: propone due vie per garantire un salario dignitoso, o il salario minimo o la maggiore diffusione della contrattazione collettiva, lasciando completa libertà di scelta ai Paesi. Dunque, nei paesi dove c’è già il salario minimo, non serve perché c’è già e non impone alcun miglioramento né tantomeno diffusione della contrattazione collettiva. E nei paesi dove è diffusa la contrattazione collettiva (come l’Italia), non serve perché non impone l’introduzione del salario minimo né tantomeno alcun rafforzamento dei sindacati. Insomma, il nulla.

Chiudiamo questa breve riflessione con la ragione di merito che, a nostro avviso, rende interessante tutta questa storia. Abbiamo visto che l’inutilità della direttiva europea non è un caso – magari connesso agli equilibri politici del momento – ma è radicata nell’architettura istituzionale dell’Unione europea, che impedisce alle istituzioni europee di incidere sui fattori chiave delle condizioni di lavoro, ossia su remunerazione, sindacalizzazione e scioperi.

Per capire il senso di questo assetto, il significato di questa impotenza europea in tema di salari, proviamo a volgere lo sguardo verso le materie che, al contrario, i Trattati affidano alla legislazione esclusiva dell’Unione europea, sottraendole al potere degli Stati membri e concentrandovi tutto il potere delle autorità europee: dazi, concorrenza, politica commerciale e politica monetaria. L’Unione europea si regge sulla libertà della produzione di spostarsi lì dove è più conveniente, ovvero la libertà di movimento dei capitali, e sulla libertà di continuare a vendere le proprie merci in tutti i Paesi europei, ovvero la libertà di commercio interno. Le istituzioni europee, disegnate dai Trattati, nascono in altri termini per garantire ai capitali di muoversi liberamente tra i Paesi europei alla ricerca delle condizioni più favorevoli per accrescere i profitti. Ma cosa sono, in ultima istanza, queste “condizioni più favorevoli”, se non le peggiori condizioni di lavoro – cioè proprio salari, sindacalizzazione, libertà di sciopero – che consentono alle imprese di sfruttare al meglio il lavoro e, dunque, di rendere massimi i propri profitti?

L’Unione europea nasce per tutelare i profitti di pochi, e quindi si fonda sulla necessità del capitale di mantenere bassi i salari, in modo da conservare e alimentare in Europa un habitat ideale per lo sfruttamento del lavoro. Se i lavoratori vogliono difendersi dal carovita non devono chiedersi cosa l’Unione europea possa fare per loro (lo abbiamo visto: non può fare assolutamente nulla), ma devono piuttosto chiedersi cosa possono fare loro per smantellare quell’organizzazione sociale basata sullo sfruttamento e sulle disuguaglianze.

Nel frattempo, se si vuole sostenere davvero il potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori ed evitare che questi siano costretti a pagare l’ennesima crisi, serve una legge sul salario minimo di almeno 10 euro lordi l’ora, la cui introduzione comporterebbe – questa sì! – un aumento dello stipendio in busta paga per oltre 5 milioni di persone. Il salario minimo può essere una misura di civiltà e un argine all’aumento del costo della vita, peccato che la direttiva europea si riveli solo una misura di marketing senza conseguenze reali sulle condizioni materiali dei lavoratori.


mercoledì 8 giugno 2022

La Fiat promette una nuova “piattaforma” in Serbia. A spese degli operai di Kragujevac

 di  — 

Mentre l'Europa impone il salario minimo garantito, per assicurare una corretta  concorrenza - mica per un ragionamento di salvaguardia sociale! - La Fiat s'inventa quello che di seguito andiamo ad illustrare, tratto dal sito "altra economia"

P.S Dedicato a tutti i giornalisti del gruppo Gedi che in piena pandemia si sono indignati quando qualcuno ha osato obiettare sul prestito di 6 miliardi e trecento mila euro, concesso a  Fca, nel decreto liquiditàcon garanzia dello Stato, cioè di tutti noi

Luciano Granieri.


A fine aprile Stellantis ha annunciato una “svolta” elettrica per la fabbrica a Sud di Belgrado. I sindacati denunciano nuovi licenziamenti e proposte irricevibili, come andare a lavorare in Germania, Polonia, Slovacchia o Italia a proprie spese e senza garanzie. Il tutto dopo 10 anni di aiuti pubblici alla multinazionale. Il nostro reportage.



“Qui a Kragujevac le cose non stanno proprio come le racconta la Fiat”, dice a inizio giugno Rajko Blagojević, segretario territoriale dei metalmeccanici del sindacato serbo “Samostalni”. Dietro all’annuncio di una “nuova piattaforma elettrica” fatto a Belgrado a fine aprile 2022 dall’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, e dal presidente della Repubblica Aleksandar Vučić, ci sarebbero infatti nuovi e pesanti licenziamenti. Con proposte alternative a quella di perdere il posto a dir poco ardite: ad esempio, spostarsi per due anni a lavorare in Germania, Polonia, Slovacchia o Italia a proprie spese e senza garanzie per il futuro.
Il tutto dopo oltre 10 anni di incentivi pubblici del governo serbo, condizioni fiscali di favore e costi del lavoro ridotti all’osso a beneficio della “FCA Srbija d.o.o. Kragujevac”, joint venture privato-pubblica che per il 67% è in mano a Stellantis (il colosso dell’automobile nato nel gennaio 2021 dalla fusione tra Fiat Chrysler Automobiles e PSA Groupe) e per il 33% all’esecutivo di Belgrado.

Incontriamo Blagojević in un bar di Kragujevac -140 chilometri a Sud della capitale-, non troppo distante dal mega stabilimento dove Fiat, annunci alla mano, avrebbe dovuto produrre dal 2012 300mila esemplari della 500L ogni anno, garantendo 30mila nuovi posti di lavoro, indotto incluso.

Le cose non sono andate però come promesso. Nel 2015, stando ai bilanci della stessa FCA, le 500L uscite da Kragujevac furono meno della metà, 91.769. Nel 2018 appena 56.303. Nel 2020 (ultimo anno disponibile) addirittura 23.272, neanche il 10% del target iniziale, tanto che quell’anno la società serba ha fatto registrare una perdita a bilancio di oltre 20,1 milioni di euro (2,3 miliardi di dinari serbi). Identico trend per i lavoratori: 3.200 nel 2016, 2.400 a fine 2019, oggi 2.016. “La fabbrica ora è praticamente ferma -dice il sindacalista-. Nel 2021 i giorni lavorativi sono stati 60 e i lavoratori hanno percepito il 65% dello stipendio (340 euro circa al mese in media, ndr)”. I giorni di sciopero lo scorso anno sono stati 12.

Il futuro non fa ben sperare, osserva il rappresentante del Samostalni (che in italiano significa “Indipendente”). Sarebbero infatti in corso trattative con il governo per “capire che cosa fare con 1.500 operai che la Fiat sostiene di non volere più”, continua Blagojević. A 500 sarebbe già stata comunicata l’interruzione del contratto, con una liquidazione complessiva pari a 2.500 euro (anche se la cifra esatta di questo “programma sociale” è ancora “incerta”), mentre per gli altri 1.000 si starebbe “cercando una soluzione”.

Il racconto di Blagojević stride molto con la versione pubblica di Stellantis. Contattata da Altreconomia l’azienda si è limitata a ribadire l’annuncio di Tavares e cioè che “installerà una nuova piattaforma elettrica a Kragujevac per produrre veicoli compatti a partire dalla metà del 2024”, riaffermando che “la Serbia e il suo stabilimento di Kragujevac svolgeranno un ruolo chiave nel piano strategico Dare Forward 2030 dell’azienda”.

Ma i 1.500 posti di lavoro tagliati o a rischio su 2.000? “Poiché lo stabilimento vedrà già nel corso del 2022 l’avvio delle attività per la realizzazione della nuova linea di produzione per la nuova piattaforma che sarà lanciata nel 2024, stiamo costruendo un ecosistema industriale flessibile e agile che vedrà una necessaria fase di transizione compresa la riqualificazione del personale”, è la tesi di Stellantis -che si è rifiutata di incontrarci e di rilasciare interviste approfondite nel merito-.

La circostanza riferita dal sindacato per la quale l’azienda abbia intenzione di “interrompere completamente la produzione dello stabilimento di Kragujevac inviando i lavoratori a lavorare all’estero e licenziando i lavoratori”, sempre secondo Stellantis, “non corrisponde al vero”. Al contrario la produzione della Fiat 500L “verrà sospesa per consentire l’ammodernamento delle linee produttive e ai lavoratori verrà offerta un’opportunità di lavoro all’estero (Europa) negli stabilimenti di Stellantis che già sono partiti sul fronte dell’elettrificazione”.

Quella che la multinazionale definisce “opportunità di lavoro” o “reskilling on the job” è riassunta in una tabella che sarebbe stata distribuita a maggio ai lavoratori in fabbrica con l’invito di far sapere presto le proprie intenzioni. Rajko ne mostra una copia. Le ipotesi per il trasferimento biennale sono quattro: Slovacchia (800 euro di salario netto), Polonia (850 euro), Italia (1.400 euro), Germania (1.900 euro). Nota numero uno: “L’alloggio è a carico dei dipendenti”.


“Com’è possibile proporre una cosa del genere a persone che hanno una famiglia?”, si domanda Blagojević, sottolineando come i lavoratori siano uniti nella protesta. “Abbiamo già manifestato tre volte dalla fine di aprile, andremo avanti”. L’obiettivo è far pressione sul governo di Belgrado che si sarebbe impegnato a investire sulla nuova “piattaforma” di Stellantis a Kragujevac 48 milioni di euro.

Accanto a Blagojević siede Rajka Veljovic, ex dipendente della Zastava, la fabbrica che produceva armi automobili e armi a Kragujevac, bombardata dalla Nato nella primavera del 1999. Da anni svolge un preziosissimo ruolo di “ponte” tra il sindacato e le associazioni di volontariato che promuovono progetti umanitari in Serbia (come “Mir Sada” di Lecco o “Non bombe ma solo caramelle Onlus” di Trieste). Mentre ascolta il racconto del sindacalista, Veljovic scuote ripetutamente la testa. “Di che cosa ci meravigliamo? Fin dal principio avevamo capito che con la Fiat nulla sarebbe stato normale”. Ripensa alla consegna dell’area produttiva di 370mila metri quadrati a Fiat da parte del governo senza oneri (all’epoca il presidente era Boris Tadic) o all’indicazione della stessa come “zona franca”, o ancora ai contributi economici per ogni operaio assunto (“9mila euro”, afferma). “Ricordo ancora gli striscioni ‘Benvenuti a casa’ affissi in giro per la città”. Oggi resta ben poco. Dalla facciata dello stabilimento è sparita anche la grande 500L che era formata da tanti piccoli operai. È rimasto solo lo slogan “Mi smo ono što stvaramo”, cioè “Siamo quello che produciamo”. Blagojević prende la penna e riscrive lo slogan cancellando due lettere dell’ultima parola. Diventa “Mi smo ono što varamo”: “Vuol dire ‘Siamo quelli che imbrogliamo’”.






lunedì 6 giugno 2022

Cinque referendum per ingabbiare la giustizia

 Comitati territoriali per la Difesa della Costituzione





Il buon funzionamento di una Democrazia come la nostra si basa sul bilanciamento fra i Poteri Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, ognuno dei quali fa da contrappeso agli altri e ne limita i possibili eccessi. 

Il 12 giugno saremo chiamati al voto per 5 referendum abrogativi che riguardano la Giustizia, con lo scopo dichiarato di indebolire il Potere Giudiziario :cinque  quesiti molto difficili da capire per chi non conosce perfettamente i meccanismi di funzionamento dei Tribunali. Cerchiamo comunque di evidenziarne brevemente i pericoli. 

1. Particolarmente inaccettabile per i cittadini onesti risulta il quesito 1 che permette ai politici pregiudicati di poter essere eletti e rimanere in carica, mentre oggi la legge Severino per fortuna lo impedisce 

2. Se fosse approvato il quesito 2, l’abolizione di tutte le misure cautelari nel caso di pericolo di reiterazione dei reati favorirebbe in particolare le illegalità compiute dai “colletti bianchi”. Inoltre saranno abolite misure come l’allontanamento dalla casa familiare (violenza domestica) o il divieto di avvicinamento alla persona offesa (“stalking”): provvedimenti indispensabili per prevenire, ad esempio la violenza sulle donne che è in drammatico aumento. 

 3. La separazione delle carriere rischia di legare l’azione del Pubblico Ministero a quella dell’Esecutivo. Altro che separazione dei poteri! Il PM finirebbe sotto il controllo politico del Governo, con una forte limitazione della funzione inquirente (specie nei confronti del potere). 

4. Il quesito 4 chiede che alla valutazione delle pagelle dei magistrati partecipino anche gli avvocati. Un giudice si potrebbe trovare in aula un avvocato che con il suo voto, può influenzare la sua carriera. Addio imparzialità del giudizio. 

5. Infine la cosiddetta “riforma del CSM” renderebbe più caotica l’elezione dei magistrati per l’organo di autogoverno, senza riuscire ad abolire le “correnti”.

 Le cinque proposte di abrogazione convergono verso un unico scopo, quello di indebolire il Potere Giudiziario, spesso a scapito del cittadino comune e a favore dei politici e dei potenti. 

Per questo chiediamo di votare NO a tutt'e cinque i referendum del 12 giugno.