Per la prima volta da quando esiste l’Unione Europea il
patto di stabilità e crescita è stato sospeso. Cioè quel numeretto "3% "che
definiva il limite del debito in rapporto al Pil oltre il quale uno Stato non
poteva andare, è scomparso, svaporato, annientato dall’emergenza Covid-19. Ciò
significa che ogni Paese dell’Unione può spendere quanto necessario per fronteggiare un’emergenza sanitaria
devastante, senza curarsi di quanto sforerà sul debito concordato con la Ue. E’
cosa buona e giusta anzi e necessaria e dimostra che il Re è nudo, rende cioè evidente come le regole del mercato, sul quale di fatto si fonda l’
Unione Europea, non siano in grado di salvaguardare automaticamente anche le persone,oltre che i profitti, sconfessando sonoramente i postulati della vulgata liberista.
Tutto
perfetto se non fosse che l’istituzione democratica più vicina ai cittadini,
cioè il municipio, dalla magnanimità europea è rimasta esclusa. Giova infatti
ricordare che dal 2012 i Comuni devono rispettare rigorosamente il patto si
stabilità interno, ossia la logica del pareggio di bilancio trasferita dall’Europa
agli enti locali, anche se il loro
concorso alla determinazione dell’enorme debito pubblico italiano è esiguo non supera l’1,8%.
Come ricorda Marco
Bersani nel suo articolo sul “manifesto" di oggi” Comuni d’Italia, tra pazienti zero e interessi sul debito" l’obbligo di rispettare il
patto di stabilità interna, sacrificando ogni funzione sociale e svendendo ai privati
proprietà e servizi pubblici, ha ridotto i Comuni a semplici enti esattoriali, controllori del conflitto sociale e, oggi, a feroci persecutori di chi si mette a
correre nei parchi. In un quadro di tale depauperamento delle casse
comunali, l’impatto con il
Covid-19 rischia di mettere
definitivamente in ginocchio i municipi. Per cui come si è sospeso il patto di
stabilità e crescita a livello europeo, parimenti si dovrebbe sospendere il
patto di stabilità interna, oltre che prevedere una immediata moratoria del pagamento degli interessi sul debito, da cui ricavare risorse immediate per far fronte all’emergenza socio-sanitaria in
atto.
Considerando la situazione del
Comune di Frosinone, ad esempio, sarebbe oltremodo salvifico chiedere l’immediata
sospensione del piano di riequilibrio economico e finanziario cui l’ente è
sottoposto dal 2013, evitando l’ottenimento di avanzi primari da qui al 2022 per 6milioni
di euro circa. Inoltre sarebbe
fondamentale una moratoria sull’ulteriore
pagamento di circa un milione di euro l’anno, per trent’anni, ( durata della dilazione
a rischio d’incostituzionalità) a saldo del debito di 28milioni di euro
risultato del riaccertamento dei residui attivi e passivi operato dal Comune nel
2015. Ammanco non certo procurato dai cittadini.
L’ideale sarebbe che fosse il
sindaco Nicola Ottaviani, con la sua
giunta, a farsi carico di potare la richiesta alla Corte dei Conti ma, com’è noto, proprio la scusa del predissesto ha
consentito al Primo Cittadino di porre in essere quell’ampio piano di
privatizzazione di beni e servizi vero obiettivo della sua consiliatura. E' chiaro, dunque, che chi ci guida ha interesse a
mantenere lo status quo, sordo a certe rivendicazioni. Tocca quindi alla collettività avanzarle e magari trasferirle a quei consiglieri d’opposizione
che ultimamente hanno dato dimostrazione
di essere più vicino ai cittadini.
Chiudendo i bilanci
alla pari, o addirittura a debito, e sgravati di un ulteriore rata di un milione
all’anno si potrebbero liberare risorse per ridurre un peso fiscale già pesante
per i frusinati , che diverrà
insostenibile a seguito della crisi determinata dal Coronavirus. Si potrebbe
potenziare la rete sociale di supporto agli anziani, ai malati, e a chi li deve
accudire, ripristinare un minimo di
aiuto pubblico annientato dalle pesanti politiche di austerity imposte dal
sindaco in nome del rispetto del piano di riequilibrio economico e finanziario.
Gioverebbe molto a questa causa anche annullare l’insana operazione di "rent to
buy" messa in piedi dalla giunta
Ottaviani per acquisire il palazzo della Banca d’Italia che impone il pagamento
di 153 mila euro di canone annuo (per dieci anni) con il rischio di ritrovarsi con un pugno di
mosche in mano visto che i due milioni di euro necessari per perfezionare l’acquisto
fra nove anni sembrano un pio desiderio, più che una posta di bilancio.
Insomma la tragedia Coronavirus ha evidenziato il fallimento delle politiche
liberiste deleterie alla salvaguardia della vita delle persone, un’evidenza che
dovrebbe imporre dei cambi paradigmatici potenti sull’azione politica delle
istituzioni anche e soprattutto a livello locale. Il guaio è, purtroppo, che certe amministrazioni non hanno orecchie per
sentire, dunque bisogna organizzarsi collettivamente
dal basso ed agire in questo senso, per adesso da casa, attraverso interventi
in rete, poi, quando sarà tutto finito,
speriamo presto, dalle piazze.