Relazione di Silvia Moresi per "La settimana della Palestina" al Fortino di Bari (22-30 marzo 2014)
Il grande intellettuale e scrittore palestinese Giabra Ibrahim Giabra così scriveva:
“Gli israeliani avevano fatto un grave errore di calcolo pensando che i palestinesi avrebbero ridotto il loro problema a quello della semplice sopravvivenza ad ogni costo. Intellettuali palestinesi spuntarono improvvisamente dappertutto: scrivendo, insegnando, parlando […]”
Effettivamente, l’unica cosa con cui gli israeliani non avevano fatto i conti, era ed è la resistenza intellettuale; una resistenza molto più difficile da combattere rispetto ad un esercito armato. La cultura tutta, e la letteratura nello specifico, sono le armi più umane e, nello stesso tempo, più potenti da poter opporre al nemico, da poter opporre soprattutto ad una forza coloniale.
Esattamente come i movimenti coloniali europei dell’ottocento, anche il sionismo (e lo stato di Israele successivamente) ha avuto bisogno per sussistere di un “racconto” su cui reggersi che giustificasse, in qualche modo, il proprio progetto coloniale presentandolo come una impresa civilizzatrice verso popolazioni ignoranti e selvagge e, nel caso specifico del sionismo, anche come il ritorno di un popolo in una terra promessa e disabitata.
Non a caso lo slogan del sionismo era “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”.
Ovviamente, visto che lì, in Palestina, in realtà un popolo c’era, c’era una società in evoluzione, intellettualmente e culturalmente viva, era necessario falsificare la Storia, far scomparire i palestinesi concretamente con una brutale occupazione, ma era necessario farli scomparire anche dalla Storia, far scomparire il loro passato, e poter raccontare una Storia in cui i palestinesi non fossero mai esistiti.
L’unico modo per riemergere dall’oblio di una storia che si è cercato di cancellare e portare avanti un doloroso processo di riemersione esistenziale, è prendere la parola!
L’unico modo per invertire i rapporti di potere tra colonizzati e colonizzatori è raccontare, raccontarsi, autorappresentarsi, dare vita ad una contro-narrazione.
Essendo, però, la Palestina ancora senza uno Stato ufficiale, non possiede nemmeno una “Storia ufficiale” che possa legittimare la sua stessa esistenza e quella del suo popolo. Quindi, il compito di raccontare una narrazione obliata e riscrivere la storia da un altro punto di vista, spetta agli intellettuali e agli scrittori palestinesi che sono gli unici che narrando o declamando in versi eventi personali e non, possono rompere il velo dell’oblio e ricomporre questo racconto collettivo.
Ecco perché la letteratura della maggior parte degli autori palestinesi può essere considerata una letteratura utilizzata come resistenza più che una letteratura di resistenza.
Uno degli scrittori palestinesi ad aver compreso pienamente la forza del racconto, della letteratura e, in particolare della poesia, è il grande poeta palestinese Mahmoud Darwish il quale in una intervista affermò: “Chi impone il proprio racconto, eredita la terra del racconto”, ossia chi riesce ad imporre, in qualche modo, la propria versione della Storia acquisisce diritti e legittimità su una determinata terra. E il racconto nel
conflitto Israele-Palestina è saldamente nelle mani di Israele.
Mahmoud Darwish ripeteva spesso, a questo proposito, di essere un poeta troiano: “Omero ha scritto il poema dei vincitori, ma sono convinto che anche gli uomini sconfitti hanno scritto un loro poema che è scomparso. Ecco il mio compito, scrivere quell’epopea”. Darwish si sentiva il poeta degli sconfitti, il poeta della sconfitta, che non significa essere, però, poeta della resa.
Parlare di Darwish, non è semplice, una poetica complessa la sua che va ben oltre la Palestina come terra concreta e come Stato, tanto che lo stesso poeta spesso criticò chi si era arrogato il diritto di individuare un messaggio pubblico anche nella parte autobiografica della sua opera, e reclamò una lettura meno politica di alcune sue opere.
Mahmoud Darwish nacque ad al-Birwa, un piccolo villaggio nell’alta Galilea il 13 Marzo 1948. Proprio pochi giorni fa è ricorso l’anniversario della nascita, e anche qui a Bari lo abbiamo ricordato con un reading, visto che purtroppo a causa del fallimento della casa editrice che aveva tradotto e pubblicato in Italia la maggior parte delle sue opere, Darwish è completamente scomparso dagli scaffali delle librerie italiane.
Le vicissitudini della vita di questo grande poeta e della sua famiglia sono vicissitudini comuni a molte famiglie palestinesi.
Nel 1948 la famiglia fuggì in Libano cercando rifugio lì e riuscirono dopo un anno a rientrare illegalmente in Palestina che però nel frattempo era diventato Israele e i loro beni erano stati completamente confiscati.
Da quel momento il poeta, come altri palestinesi, dovette fare i conti con la condizione di “straniero” in patria e fuori di essa. Un senso di alienazione costante che influirà non poco sulla sua poetica.
Dopo aver lasciato definitivamente la Palestina nel 1976, passò il resto della sua vita tra Beirut, il Cairo, Tunisi e ‘Amman, e negli anni ottanta fu eletto nel comitato esecutivo dell’OLP da cui si dimise nel 1993 perché contrario agli accordi di Oslo.
Mahmoud Darwish è considerato il più grande poeta palestinese contemporaneo, la voce della Palestina: “Il destino ha voluto che la mia storia individuale si confondesse con la storia collettiva, e che il mio popolo si riconoscesse nella mia voce”, così affermava il poeta in una intervista. Darwish era, però, assolutamente contrario al concetto di poetaprofeta: “Il poeta non rappresenta né una causa né un popolo, ma rappresenta solo se stesso”.
Nella sua idea di poeta, questi non è colui che si arroga il diritto di parlare per gli altri, per un popolo. Il poeta parla del suo universo, della sua sofferenza anche privata, del suo sentire, e può accadere che il sentire del poeta corrisponda, come nel caso di Darwish, ad un sentire comune, e che il poeta riesca a dar voce ai senza voce.
L’arrogarsi il diritto di parlare per gli altri è una presunzione che appartiene prettamente all’uomo politico.
La poesia di Mahmud Darwish afferma la legittimità del diritto all’esistenza dei palestinesi, ne incarna il desiderio di riscatto, e lo fa attraverso un appello alla libertà e alla giustizia universale. Il conflitto mediorientale rappresentato nei suoi versi perde la dimensione di conflitto regionale, locale. Il dramma dell’esilio, dello sradicamento e della repressione del popolo palestinese diventano un dramma collettivo, ma anche una condizione individuale che ognuno a livelli diversi può aver vissuto durante la sua esistenza.
Per questo la sua poesia è pienamente consacrata a livello internazionale, per il suo respiro universale.
Nella poesia di Darwish sono presenti tutti i temi della letteratura post-coloniale: l’identità, la segregazione, l’esilio, il rapporto con l’altro, temi affrontati dal poeta in maniera spesso originale.
Il tema dell’identità, ad esempio, spesso simboleggiato nelle sue poesie da due oggetti, “la carta di identità” e il “passaporto” (che sono anche i titoli di due sue poesie), è una identità fortemente legata alla terra, al luogo, ma che per sussistere, tuttavia, in più di sessant’anni non ha avuto bisogno di uno Stato politico che la riaffermasse costantemente. I versi di Darwish nella poesia “Passaporto” ben esprimono questo concetto: “Spogliato del nome, dell’identità? in una terra che ho nutrito con le mie mani? […] Tutti i cuori della gente, ecco la mia nazionalità. Lasciate cadere allora dalla mia pelle il passaporto!”. Dunque, la “palestinesità” non ha bisogno di un documento che la certifichi, la “palestinesità” è una realtà trasportata sulle spalle, nei gesti, nella lingua, nella coscienza dei palestinesi stessi.
Sempre a proposito dei documenti e dell’identità, Darwish affermò in una intervista:
“Il problema è che ci sentiamo obbligati a ricollegarci alle nostre radici, per fortificare le nostre difese. Gli altri ci costringono a farlo, ben più di quanto lo desideriamo o vogliamo. Non credo ci sia al mondo un solo popolo a cui si chieda come ai palestinesi di provare la propria identità. Nessuno dice ai greci non siete greci; ai francesi, non siete francesi. Ma il palestinese deve presentare costantemente i suoi documenti, poiché si cerca di farlo dubitare di se stesso”.
Paradossalmente, però, il “trattamento speciale” a cui sono sottoposti i palestinesi ha rinsaldato la loro identità. I check-point, il muro e tutte le altre barriere dove vengono controllate le identità non fanno altro che ricordare a questo popolo la propria identità che viene così, in un certo modo, costantemente riaffermata. Anche l’esperienza tragica dell’esilio ha rinsaldato il legame con la patria perduta: si è lontani dalla Palestina e senza possibilità di ritorno proprio perché si appartiene a quel territorio.
Mahmoud Darwish, nei suoi versi, resiste, opponendo alla retorica sionista non una identità statica, escludente, razzista, come quella israeliana, ma una identità, potremmo dire citando Edward Said, post-nazionale, accogliente e fluttuante: “Non credo nelle razze pure, né in Medio Oriente, né altrove. Al contrario sono convinto che il meticciato mi arricchisca e arricchisca la mia cultura. […]”. Il poeta sa che su quella terra sono passate molteplici culture (la cananea, la greca, la romana, l’ebraica, la persiana, l’egiziana, l’araba, l’ottomana, l’inglese, la francese, etc.) ed è lui che è pronto a vivere e a dar voce a tutte le identità straniere dentro di lui.
Questa identità con le sue molteplici voci, trova letteralmente casa all’interno dei versi di Darwish che ricostruisce la propria storia, la propria identità e il proprio paese attraverso la scrittura. Darwish fa della poesia un rifugio, una casa in cui preservare vita e identità. Una casa e un rifugio che questa volta nessuno abbatterà con una ruspa o un carrarmato, una casa e una identità che vivranno in eterno.
Questo era quello che intendeva Darwish quando affermava di “vivere nella poesia”. Non a caso, diceva il poeta, nella lingua araba la parola bayt traduce sia la parola casa sia la parola verso poetico.
La riscrittura e la costruzione della Patria per mezzo della poesia e del racconto è un concetto espresso perfettamente nella poesia “Noi viaggiamo come tutti gli altri” in cui il poeta esorta tutti a parlare e raccontare affinché lui e il suo popolo possano infine costruire il loro paese concretamente: “Abbiamo un paese di parole, parla, affinchè io costruisca il mio cammino su pietra di pietra. Abbiamo un paese di parole, parla, parla, per conoscere la fine di questo viaggio”.
Mahmoud Darwish, inoltre, riguardo il tema del passato affermò in una intervista:
“Noi poeti palestinesi siamo incerti perché viviamo in un momento della storia in cui sembriamo privi di passato. Siamo alle prese con una idea ricevuta secondo la quale non avremmo passato. Come se il nostro passato appena iniziato, come se fosse proprietà esclusiva dell’altro”.
Il grande utilizzo, nelle sue poesie, della storia dei miti arabi e delle tradizioni deriva proprio dalle considerazioni appena citate. Anche in questo caso Darwish resiste, opponendo una mitologia alternativa a quella della retorica sionista e israeliana che basava (e basa ancora oggi) la propria legittimità su quella terra su antichi miti.
Edward Said aveva osservato, infatti, come sia prerogativa dei regimi imperialistici usare tradizioni e miti per costruire una identità nazionale costruendo un passato da cui si eliminano volutamente elementi e narrazioni non coerenti con il proprio progetto; una archeologia selettiva, ancora oggi molto in voga in Israele.
Un termine onnipresente nelle poesie di Darwish è la parola “nome”. Come ripeteva il poeta, “l’umanità dell’uomo inizia dall’apprendimento dei nomi”, quel nome di cui erano stati privati i palestinesi sottoposti al rapido ed inesorabile processo coloniale di “depersonalizzazione colletiva”, definiti a negativo come “comunità non ebraiche presenti in Palestina”; una negazione forzata dell’identità e dell’umanità.
Ricordare poi i nomi geografici della Palestina, della sua cultura e della sua Storia significa per Darwish anche assicurarne la difesa. Lui stesso affermava: “Forse ho paura di vedere confiscato il passato. La paura di perdere il passato, o di lasciarcelo sfuggire. Nasce da lì la mia preoccupazione di aprire il registro dell’assenza”.
Una paura fondata visto che il sionismo attraverso il processo di ebraizzazione della Terra aveva cancellato i nomi arabi di villaggi, fiumi, colline e li aveva rinominati seconde antichi nomi biblici, rendendo tutto irriconoscibile per i palestinesi; David Ben Gurion, uno dei fondatori del sionismo e primo ministro dello stato di Israele, così affermava: “I villaggi ebraici sono stati costruiti al posto di quelli arabi. Oggi voi ignorate persino i nomi di quegli antichi insediamenti e non è colpa vostra poiché non esistono più libri di geografia che ne parlino. E anzi, non solo non esistono più quei libri, ma neppure quei villaggi”.
Concludendo, l’intento di Darwish era difendere una certa immagine della Palestina, celebrando gli sconfitti e le cose semplici e modeste: l’erba, le rocce, il mandorlo in fiore.
Il grande poeta affermava: “Sono consapevole che la poesia non può opporsi alla guerra né con le sue stesse armi, né con un linguaggio bellico, ma con l’esatto contrario.” La poesia di Darwish fa guerra alla guerra semplicemente armandosi di tutta la fragilità dell’umano.