Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 14 settembre 2013

Sindacati e sindaci

Luciano Granieri


 
foto tratta dal messaggero.it
Leggendo sui giornali locali le cronache  relative  alla  conferenza dei sindaci di Ato5, riunitisi il 9  settembre   scorso per   decidere  sul ricorso da contrapporre ad Acea,   tornata a reclamare 75 milioni de euro dai cittadini  e per sancire finalmente la rescissione del contratto per colpa con la stessa Acea, ho avuto la solita spiacevole sensazione di aver subito, come cittadino, l’ennesima presa in giro. 

Ai tanti esiti inconcludenti delle altre conferenze, costellate  di assenze, ritardi nell’inizio delle discussioni, ripicche, e piccoli dispettucci, in questo caso si è aggiunta la scomparsa, sic et simpliciter, dall’ordine del giorno di uno dei temi da deliberare , anzi del “TEMA DA DELIBERARE”  la rescissione del contratto con Acea. 

La reazione sconcertata e ferma   del sindaco di Torrice Alessia Savo  intenzionata ad opporsi    all’ennesimo smacco che gli altri sindaci stavano preparando agli utenti del servizio idrico è stata addirittura  repressa   con la violenza da parte del sindaco di Collepardo Bussiglieri,il tutto sotto l’imperturbabile sguardo del commissario straordinario della provincia Patrizi. 

Come se un dispositivo di autocontrollo scattasse nel caso in cui uno o più membri dell’assemblea osassero comportarsi al di fuori dei canoni prestabiliti. Ma quali sono i canoni prestabiliti? Adoperarsi per difendere il diritto dei cittadini ad avere una erogazione idrica  efficiente, controllando che il gestore privato operi per la qualità del servizio, o agire da  anestetico alla protesta messa in atto dai cittadini insoddisfatti del servizio e   favorendo le malefatte di Acea?  

foto tratta dal messaggero.it
E’ possibile che finanziamenti promessi e mai attuati sulle condotte idriche, accuse rivolte da Acea agli stessi sindaci di aver mentito sullo stato della rete distributiva con la susseguente richiesta  del famoso rimborso di 75 milioni , bollette fuori controllo con l’addebito di aumenti retroattivi, interruzioni del servizio, vessazioni vere e proprie verso quei cittadini che hanno lamentato le ruberie messe in atto dal gestore, non siano sufficienti   per invocare la rescissione del contratto per colpa?  

Il comportamento di questa consulta che dovrebbe salvaguardare gli interessi dei cittadini nei confronti del privato, assomiglia molto all’azione di certi sindacati mainstream che dovrebbero curare gli interessi dei lavoratori. Questi ultimi si dicono sempre disponibili a difendere il diritto al lavoro, si fanno vedere  affianco dei lavoratori che vengono licenziati, dicono di assumersi impegni in merito alle vertenze più difficili, con la promessa di risolverle invocando l’intervento delle istituzioni, e  tali vertenze    puntualmente vedono i loro assistiti perdenti. 
Poi nei tavoli di trattativa con il padronato vendono la pelle degli operai firmando i peggiori accordi possibili, per i lavoratori evidentemente, l’esempio  del modello  Pomigliano sta li a dimostrarlo. 

Così i sindaci, innanzi alle proprie comunità, promettono fuco e fiamme contro Acea, giurano di adoperarsi  per far rivalere nei confronti del gestore privato i diritti dei cittadini utenti, arrivando addirittura a esigere la rescissione del contratto, poi nelle loto squallide riunioni presiedute dallo svogliato  dirigente provinciale di turno, sia esso Scalia, piuttosto che Iannarilli o Patrizi, cincischiano, rinviano, disertano vendono ad Acea i diritti dei propri amministrati  così come i sindacati fanno con lavoratori nei confronti dei padroni. Quale sarà mai la contropartita? 

Per il mondo sindacale è sufficientemente chiara. Spesso nei consigli di amministrazione di molte aziende si notano in posizioni di privilegio ex sindacalisti, e non è raro assistere al decollo di dirigenti sindacali verso brillanti carriere politiche. E per i sindaci della consulta?  Forse la possibilità di piazzare propri elettori nella dirigenza di Acea?  O forse veder ricambiato il favore riservato al gestore con l’impegno di ricevere importanti endorsement elettorali? Una fatto è certo quando lavoratori e cittadini riusciranno a liberarsi di cotanti geni e a rappresentare i propri diritti direttamente e autonomamente le cose miglioreranno notevolmente.


venerdì 13 settembre 2013

Furto con strage e ricatto

Luciano Granieri


Questa è la storia di un furto aggravato e continuato. Un coacervo di azioni criminose, che ha lasciato, lascia e continuerà a lasciare dietro di se una scia di morte  disperazione. Una storia da romanzo criminale, solo che di romanzato non c’è nulla. E’ tutto vero e la cruda la realtà supera la più perversa delle fantasie. 

E’ la vicenda di un imprenditore, o meglio di una famiglia di imprenditori, che riesce ad avere in dono per un tozzo di pane una delle più grandi acciaierie di Europa. Nell’era delle grandi privatizzazioni sulla scia delle prescrizioni firedmaniane uno dei più grandi poli pubblici della siderurgia italiana  l’Italsider, è smembrata e le sue spoglie vengono regalate al gotha della classe accattona imprenditoriale italiana. 

Chiuso l’impianto di Bagnoli, cedute le strutture di Comigliano e Piombino, quest’ultima al gruppo bresciano Lucchini, la parte più consistente, il mega impianto di Taranto, viene    regalata al gruppo  Riva, che riesuma il vecchio nome dell’Ilva. Dal 1995, anno dell’acquisizione dell’impianto, la famiglia comincia a realizzare enormi profitti. Ricchezze accumulate  sulle spalle degli operai costretti a turni massacranti, messi gli uni contro gli altri attraverso liste di proscrizione in cui i lavoratori più rompicoglioni venivano  sono segnalati con un segno rosso sulla busta paga e messi alla gogna a monito degli altri più consenzienti il cui foglio paga è vergato di vede . Quel segno rosso era una sordida minaccia, che indicava a chi lo riceveva   che il suo modo di fare non era gradito ai padroni. Era l’anticamera del licenziamento. 

Sulla pelle delle maestranze condannate a morte in un ambiente di lavoro malsano e altamente nocivo, la famiglia Riva ha prosperato. Ma l’acciaieria non è fabbrica di semplice gestione. Tutta i processi produttivi sono ad alto impatto ambientale, l’inquinamento coinvolge oltre che gli impianti anche il territorio che li ospita. E’ dunque necessario aggiornare continuamente i sistemi di controllo delle emissioni inquinanti, della dispersioni delle polveri nell’aria, in mare e nel terreno. 

E’ obbligatorio rispettare ferree procedure  stabilite dalla legge per    contrastare l’inquinamento e ciò evidentemente comporta l’esborso di ingenti quantità di denaro. Qui comincia il furto. Degli enormi profitti realizzati, non un centesimo viene investito dal management per rispettare le procedure. I denari prendono la via dei paradisi fiscali. Non vengono usati   per l’aggiornamento degli impianti ma  addirittura nascosti al fisco. Si trasformano in patrimoni immobiliari sterminati e in guadagni da speculazione finanziaria. 

Non si disdegna fra l’altro di aiutare amici e amici degli amici. Per far contento l’amico Berlusconi, si investe nella sciagurata operazione del salvataggio di Alitalia, un presidente del consiglio può far sempre comodo, vedi le prescrizioni ambientali all’acqua di rose che il ministro dell’ambiente berlusconiano Stefania Prestigiacomo ha imposto  all’Ilva. 

Si pagano lautamente campagne elettorali di politici di destra Berlusconi, ma anche di sinistra. Bersani. La distrazione per uso personale e criminoso di questi fondi, determina il deterioramento ambientale  dello stabilimento di Taranto il cui inquinamento uccide operai e popolazione limitrofa. Furto con strage. 

Nel silenzio della politica corrotta, si erge la voce della magistratura   che denuncia per disastro ambientale i Riva, predisponendo gli arresti domiciliari per Emilio Riva, oggi di nuovo libero per decorrenza dei termini,  e il blocco della produzione fino a che gli impianti non verranno adeguati alle norme anti inquinamento più moderne. 

Dopo la guerra fra poveri scatenata dall’imprenditore, con la contrapposizione fra diritto al lavoro e diritto alla salute. Dopo che è imposto un investimento di 8miliardi per la messa in sicurezza degli impianti, fondi mai erogati dai Riva,   lo stabilimento viene commissariato, posto sotto il controllo dello stato che guarda caso nomina  a guardia della ferriera un manager di fiducia dello stesso Riva: il tagliatore di testa Enrico Bondi. Cioè il controllore è praticamente scelto dal controllato. 

Mentre la politica cincischia la magistratura va avanti. Scopre che gli 8 miliardi necessari alla bonifica erano nella disponibilità dei Riva i quali li hanno di fatto rubati  alla collettività, trasferendoli all’estero, nascondendoli al fisco. Dunque come è normale in uno stato di diritto, la magistratura   impone  che quei soldi tornino alla comunità e  il 24 maggio scorso dispone  il sequestro di beni mobili e immobili sia di Ilva che di Riva Fire spa altro gruppo facente capo ai Riva, e del patrimonio personale della  famiglia fra cui alcuni conti correnti privati . 

Passano 4 mesi, siamo ad oggi e l’indole criminale dei Riva emerge in tutta la sua crudeltà. La famiglia sacrifica,   a difesa dei beni posti sotto sequestro,  dei veri e propri  scudi umani. Baluardi incarnati nei 1400 addetti impiegati nelle altre aziende del gruppo, quelle poste al di fuori del perimetro dell’Ilva di Taranto ormai commissariata. 

Come ritorsione al sequestro si fermano gli stabilimenti  facenti capo ai gruppi Riva Acciaio, Riva Energia, e Muzzana Trasporti.  Da Cuneo a Varese, da Lecco a Brescia a Verona viene disposta la chiusura di  aziende floride, produttive  e la “messa in libertà” di 1400 operai sena cassa integrazione. 

Furto, strage, ricatto, frode, evasione fiscale. Serve altro per convincere un governo a nazionalizzare tutte le aziende di questa congrega di criminali? Cosa si aspetta a reintegrare tutti gli operai e a pagare loro lo stipendio usando i fondi dei beni sequestrati ai Riva? I quali continuano ad alimentare la guerra fra poveri mettendo i lavoratori delle imprese poste al nord contro quelli di Taranto e tutti contro il  gip Patrizia Todisco. Purtroppo in questo dannato paese,  così come la legge è uguale per tutti, ma per alcuni è più uguale di altri,  anche i criminali sono tutti uguali, ma alcuni sono più uguali di altri… o più criminali?  Dunque l’esproprio senza indennizzo di tutto il gruppo non avverrà mai. 

E pensare  che  questo potrebbe costituire un primo importante passo verso la nazionalizzazione di tante altre aziende in cui altrettanti criminali giocano con la vita dei lavoratori  e della collettività che frodano con l’evasione, e la delocalizzazione. Sarebbe ora di farla finita con questa classe opulenta e accattona che ha costruito le sue fortune sulle spalle della gente comune, a cominciare dal delinquente arcoriano che con le sue truppe di servi da un ventennio occupa abusivamente il Parlamento.

giovedì 12 settembre 2013

La via maestra

La via maestra è il documento appello lanciato da Lorenza Carlassarre, don Luigi Ciotti, Maurizio Landini, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky in occasione dell'assemblea pubblica fortemente partecipata e molto combattiva svoltasi l'8 settembre a Roma. L'obiettivo è quello di far crescere nel paese e nei diversi territori una forte e crescente mobilitazione popolare che sventi ogni tentativo di colpire la Costituzione, annullandone il contenuto innovativo e straordinariamente moderno. Il primo appuntamento è stato fissato per il 12 ottobre a Roma in una grande manifestazione popolare in cui far confluire i diversi movimenti , le espressioni della società civile, delle organizzazioni sindacali e della politica che si riconoscono nella necessità di operare una svolta per uscire dalla crisi sulla via della costruzione di una società più giusta e solidale. La lotta per l'applicazione della Costituzione - sostiene il documento – è "innanzitutto la promozione di un'idea di società", "un programma per un futuro da costruire in Italia e in Europa" intorno al quale occorre unire tutte le forze disponibili.

Ecco il testo integrale del documento

«1. Di fronte alle miserie, alle ambizioni personali e alle rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato, invitiamo i cittadini a non farsi distrarre. Li invitiamo a interrogarsi sui grandi problemi della nostra società e a riscoprire la politica e la sua bussola: la Costituzione. La dignità delle persone, la giustizia sociale e la solidarietà verso i deboli e gli emarginati, la legalità e l’abolizione dei privilegi, l’equità nella distribuzione dei pesi e dei sacrifici imposti dalla crisi economica, la speranza di libertà, lavoro e cultura per le giovani generazioni, la giustizia e la democrazia in Europa, la pace: questo sta nella Costituzione. La difesa della Costituzione non è uno stanco richiamo a un testo scritto tanti anni fa. Non è un assurdo atteggiamento conservatore, superato dai tempi. Non abbiamo forse, oggi più che mai, nella vita d’ogni giorno di tante persone, bisogno di dignità, legalità, giustizia, libertà? Non abbiamo bisogno di politica orientata alla Costituzione? Non abbiamo bisogno d’una profonda rigenerazione bonificante nel nome dei principi e della partecipazione democratica ch’essa sancisce?
Invece, si è fatta strada, non per caso e non innocentemente, l’idea che questa Costituzione sia superata; che essa impedisca l’ammodernamento del nostro Paese; che i diritti individuali e collettivi siano un freno allo sviluppo economico; che la solidarietà sia parola vuota; che i drammi e la disperazione di individui e famiglie siano un prezzo inevitabile da pagare; che la partecipazione politica e il Parlamento siano ostacoli; che il governo debba essere solo efficienza della politica economica al servizio degli investitori; che la vera costituzione sia, dunque, un’altra: sia il Diktat dei mercati al quale tutto il resto deve subordinarsi. In una parola: s’è fatta strada l’idea che la democrazia abbia fatto il suo tempo e che si sia ormai in un tempo post-democratico: il tempo  della sostituzione del governo della “tecnica” economico-finanziaria al governo della “politica” democratica. Così, si spiegano le “ineludibili riforme” – come sono state definite –, ineludibili per passare da una costituzione all’altra.
La difesa della Costituzione è dunque innanzitutto la promozione di un’idea di società, divergente da quella di coloro che hanno operato finora tacitamente per svuotarla e, ora, operano per manometterla formalmente. È un impegno, al tempo stesso, culturale e politico che richiede sia messa in chiaro la natura della posta in gioco e che si riuniscano quante più forze è possibile raggiungere e mobilitare. Non è la difesa d’un passato che non può ritornare, ma un programma per un futuro da costruire in Italia e in Europa.
2. Eppure, per quanto si sia fatto per espungerla dal discorso politico ufficiale, nel quale la si evocava solo per la volontà di cambiarla, la Costituzione in questi anni è stata ben viva. Oggi, ci accorgiamo dell’attualità di quell’articolo 1 della Costituzione che pone il lavoro alla base, a fondamento della democrazia: un articolo a lungo svalutato o sbeffeggiato come espressione di vuota ideologia. Oggi, riscopriamo il valore dell’uguaglianza, come esigenza di giustizia e forza di coesione sociale, secondo la proclamazione dell’art. 3 della Costituzione: un articolo a lungo considerato un’anticaglia e sostituito dall’elogio della disuguaglianza e dell’illimitata competizione nella scala sociale. Oggi, la dignità della persona e l’inviolabilità dei suoi diritti fondamentali, proclamate dall’art. 2 della Costituzione, rappresentano la difesa contro la mercificazione della vita degli esseri umani, secondo le “naturali” leggi del mercato. Oggi, il dovere tributario e l’equità fiscale, secondo il criterio della progressività alla partecipazione alle spese pubbliche, proclamato dall’art. 53 della Costituzione, si dimostra essere un caposaldo essenziale d’ogni possibile legame di cittadinanza, dopo tanti anni di tolleranza, se non addirittura di giustificazione ed elogio, dell’evasione fiscale. Ecco, con qualche esempio, che cosa è l’idea di società giusta che la Costituzione ci indica.
Negli ultimi anni, la difesa di diritti essenziali, come quelli alla gestione dei beni comuni, alla garanzia dei diritti sindacali, alla protezione della maternità, all’autodeterminazione delle persone nei momenti critici dell’esistenza, è avvenuta in nome della Costituzione, più nelle aule dei tribunali che in quelle parlamentari; più nelle mobilitazioni popolari che nelle iniziative legislative e di governo. Anzi, possiamo costatare che la Costituzione, quanto più la si è ignorata in alto, tanto più è divenuta punto di riferimento di tante persone, movimenti, associazioni nella società civile. Tra i più giovani, i discorsi di politica suonano sempre più freddi; i discorsi di Costituzione, sempre più caldi, come bene sanno coloro che frequentano le aule scolastiche. Nel nome della Costituzione, ci si accorge che è possibile parlare e intendersi politicamente in un senso più ampio, più elevato e lungimirante di quanto non si faccia abitualmente nel linguaggio della politica d’ogni giorno.
In breve: mentre lo spazio pubblico ufficiale si perdeva in un gioco di potere sempre più insensato e si svuotava di senso costituzionale, ad esso è venuto affiancandosi uno spazio pubblico informale più largo, occupato da forze spontanee. Strade e piazze hanno offerto straordinarie opportunità d’incontro e di riconoscimento reciproco. Devono continuare ad esserlo, perché lì la novità politica ha assunto forza e capacità di comunicazione; lì si sono superati, per qualche momento, l’isolamento e la solitudine; lì si è immaginata una società diversa. Lì, la parola della Costituzione è risuonata del tutto naturalmente.
3. C’è dunque una grande forza politica e civile, latente nella nostra società. La sua caratteristica è stata, finora la sua dispersione in tanti rivoli e momenti che non ha consentito di farsi valere come avrebbe potuto, sulle politiche ufficiali. Si pone oggi con urgenza, tanto maggiore quanto più procede il tentativo di cambiare la Costituzione in senso meramente efficientistico-aziendalistico (il presidenzialismo è la punta dell’iceberg!), l’esigenza di raccogliere, coordinare e potenziare il bisogno e la volontà di Costituzione che sono diffusi, consapevolmente e, spesso, inconsapevolmente, nel nostro Paese, alle prese con la crisi politica ed economica e con la devastazione sociale che ne consegue.
Anche noi abbiamo le nostre “ineludibili riforme”. Ma, sono quelle che servono per attuare la Costituzione, non per cambiarla.»


L’ attuazione della Costituzione è la via maestra

Paolo Ciofi 


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L’assemblea che si è svolta a Roma l’8 settembre per iniziativa di Lorenza Carlassarre, don Luigi Ciotti, Maurizio Landini, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky sulla base del documento significativamente intitolato La via maestra costituisce un evento di notevole rilievo, in aperta e dichiarata controtendenza rispetto al degrado in cui si sta sfiancando il sistema politico. Le ragioni che rendono questo evento rilevante, e da seguire con grande attenzione per gli effetti che potrà generare, sono principalmente tre.
        
Innanzitutto, dopo anni di sottovalutazioni, tentennamenti e attenuazioni che hanno coinvolto anche le sinistre comunque denominate, tra incomprensioni e connivenze di chi ha governato, tra la retorica di chi si definisce democratico e gli strappi di chi si dichiara liberale, l’assemblea ha messo in chiaro qual è la posta in gioco nella crisi che soffoca l’Italia, ben al di là della formazione di un governo e del destino di un padrone megalomane. In gioco (e non da oggi) è la democrazia costituzionale. Vale a dire una conquista storica del popolo italiano sulla via dell’uguaglianza e della libertà: qualcosa di molto concreto, che riguarda la vita delle donne e degli uomini di questo Paese, il loro lavoro, i loro diritti, le loro aspirazioni. Non per caso il diritto al lavoro per un’intera generazione è diventato un’ irragiungibile utopia, mentre la Fiat pretende di abolire i diritti costituzionali nelle sue aziende e J. P. Morgan, tra i maggiori responsabili della crisi globale, sentenzia senza mezzi termini che le Costituzioni del sud Europa sono intrise di idee socialiste e perciò vanno tolte di mezzo.
         In secondo luogo, si è affermato con altrettanta chiarezza che lottare per l’attuazione della Costituzione è il tema del momento. Non si tratta semplicemente di difendere in astratto i principi costituzionali, ma di attuarli. Che è cosa ben diversa, e richiede una mobilitazione sociale e culturale ampia e articolata nei diversi territori del Paese, in grado di coinvolgere tutte le forze disponibili superando divisioni e settarismi, capace perciò di fare massa critica. Insomma, è tempo di abbandonare uno stanco difensivismo di routine e di aprire le porte a un progetto di trasformazione che guarda al futuro. Non difendiamo la Costituzione se non lottiamo per attuarla. Ma una lotta  combattuta sulle vecchie trincee del passato sarebbe destinata alla sconfitta. Perciò servono una visione dinamica della nostra Carta fondamentale, che ne liberi tutte le potenzialità innovative, e una manutenzione ordinaria adatta a questo scopo. Il contrario dello stravolgimento dell’articolo 138, che apre la strada alla Repubblica presidenziale e alla cancellazione di fondamentali diritti. È utile invece un riassetto istituzionale centrato sulla eliminazione del bicameralismo perfetto e la riduzione dei parlamentari: proposte avanzate fin dagli anni ottanta da Enrico Berlinguer e sempre respinte.
        
In terzo luogo, già nel documento preparatorio dell’assemblea di Roma, si sostiene senza possibilità di equivoci che lottare per l’attuazione della Costituzione significa promuovere un’altra idea di società, idonea a farci uscire dalla crisi. La Costituzione fondata sul lavoro è un progetto di società. non un coacervo di regole ammuffite, che impediscono all’uomo del destino di governare il Paese. «La difesa della Costituzione -  si legge nel documento – è innanzitutto la promozione di un’idea di società, divergente da quella di coloro che hanno operato finora tacitamente per svuotarla e, ora, operano per manometterla formalmente. Non è la difesa di un passato che non può tornare, ma un programma per un futuro da costruire in Italia e in Europa». Questo è il cuore del problema, che dà senso e contenuto alla politica, una politica completamente diversa da quella praticata in questi anni.
        
Il fondamento del lavoro cambia la natura dello Stato e della società rispetto al passato e apre le porte al futuro, a una civiltà più avanzata in cui l’economia sia posta al servizio dell’uomo e non viceversa. Non è la prima volta che mi capita di sottolineare che nella Costituzione il progetto di una società di tipo nuovo è realizzabile perché il centro di gravità della società e dello Stato non è più la proprietà ma il lavoro, ossia il lavoratore cittadino. E che perciò in questo disegno la democrazia politica non si riduce all’esclusiva rappresentanza istituzionale, ma si arricchisce con forme di democrazia diretta e con innovativi contenuti sociali. La Repubblica fondata sul lavoro, che nei suoi principi costitutivi innalza i lavoratori a protagonisti del cambiamento dando una nuova dimensione alla dignità della persona, non si limita a chiedere consenso: vuole partecipazione e protagonismo delle masse. L’opposto di ciò che vuole il capitale e di ciò che praticano i partiti attuali, più o meno leaderistici.
        
Non la Costituzione bisogna cambiare, ma i partiti e l’intero sistema politico. Ormai siamo molto vicini al punto di rottura di una contraddizione che appare sempre più lacerante e distruttiva: come può reggersi una Repubblica fondata sul lavoro se le persone che vivono del proprio lavoro, i nuovi lavoratori salariati (e non solo) del XXI secolo, non hanno alcun peso politico? Se i portatori di interessi contrapposti a quelli del capitale sono di fatto privi degli strumenti della politica? La lotta di classe praticata dal capitale anche sul terreno culturale e ideale ha avuto come effetto principale, sebbene efficacemente occultato e misconosciuto, la cancellazione dal sistema politico delle lavoratrici e dei lavoratori eterodiretti nella fase della globalizzazione capitalistica. Ma in tal modo la Repubblica democratica è stata disancorata dal suo fondamento, e sta andando alla deriva. Ciò spiega perché l’Italia viva in uno stato di sofferenza crescente e di perenne incertezza, sempre in bilico tra enormi potenzialità represse e regressioni reali.
        
Allora la scena si illumina, e appare di solare evidenza che una componente decisiva della lotta per l’attuazione della Costituzione è la costruzione, nel contatto vivo con i movimenti della società e delle spinte al cambiamento che in essa si manifestano, di una rappresentanza politica del lavoro del XXI secolo, ben più ampio del lavoro fordista sebbene frantumato e diviso nelle infinite forme della precarietà, del non-lavoro, della disoccupazione. C’è bisogno, nell’interesse stesso del Paese e dell’Europa, di un soggetto politico capace di interpretare le aspirazioni e i bisogni delle lavoratrici e di lavoratori della nostra epoca, costruendo insieme a loro nuove forme della politica, organizzate e capaci di produrre egemonia e alleanze, cioè un nuovo blocco storico in grado di dare respiro e concretezza al disegno costituzionale.
        
È un nodo che non si può eludere. E che dà senso alla parola sinistra: essere di parte per fermare i poteri economici e politici che stanno distruggendo la Costituzione e la società; essere di parte per trasformare la società applicando la Costituzione. Dando sbocco generale a quelle pur significative e vincenti iniziative che si sono espresse nel referendum sull’acqua e sul nucleare, nella resistenza della Fiom. Merito dei promotori dell’assemblea romana è di avere indicato un percorso di lotta e di mobilitazione, la cui prima tappa è la manifestazione di Roma, che si terrà anche se cade il governo Letta perché - ha detto Landini concludendo l’assemblea - non c’è oggi in Italia una forza politica che rappresenti le istanze indicate da La via maestra. E Rodotà aveva affermato che l’obiettivo è quello di aprire un nuovo spazio pubblico al di fuori dei partiti presenti. Precisando poi in una intervista: «personalmente, penso che con questo lavoro non escludente potremo poi ricostruire i tratti di una sinistra costituzionale».
        
Dunque, appare chiaro che se la mobilitazione per l’attuazione della Costituzione può e deve raccogliere uno schieramento più ampio di quello di una sinistra fondata sul lavoro, si può d’altra parte essere certi che in assenza di una sinistra politica fondata sul lavoro le possibilità di reggere l’urto dell’offensiva politica contro la Costituzione si riducono di molto. Al tempo stesso, dovrebbe essere altrettanto chiaro che una sinistra vera, qualunque sia il suo nome, può svolgere un ruolo in questo Paese solo se assume con coerenza rivoluzionaria i principi fondamentali e i diritti della Carta costituzionale. In definitiva, sono due facce di un unico problema. Si tratta di un dato oggettivo che sta nelle cose, nel processo stesso aperto dall’iniziativa dei promotori de La via maestra, di cui è difficile prevedere adesso l’approdo finale. Si dice che ci vuole cautela e ponderatezza per evitare errori, ed è vero. Ma attenzione: in questa fase di crisi e scomposizione del sistema politico si aprono spazi che bisogna saper coprire. I tempi non sono infiniti.

Intervento pubblicato anche su http://www.unoetre.it/
       

CILE 40 anni dopo : parla Jorge Coulon, leader storico degli Inti Illimani e oggi candidato del PCC

http://www.libera.tv/





"Il capitale straniero, l'imperialismo, uniti alla reazione, crearono il clima affinchè leForze Armate rompessero la tradizione (democratica, ndt). Sicuramente Radio Magallanes sarà zittita e il metallo tranquillo della mia voce non vi giungerà più. Non importa. Continuerete a sentirla. Starò sempre insieme a voi. Lavoratori, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!" .
Queste le ultime parole alla radio diSalvador Allende, il giorno stesso del golpe dell'11 settembre 1973, poco prima della fine.

mercoledì 11 settembre 2013

Femminicidio: Un decreto pieno di incongruenze

Luisa Betti. fonte http://www.ilmanifesto.it/

Critiche di donne e giuristi alla nuova norma: arretrata rispetto alle direttive Ue. Molti i dubbi emersi nelle audizioni alla camera. Le associazioni chiedono profonde modifiche. La discussione in aula dal 20 settembre.

 
Il decreto sul femminicidio sembra ormai un treno in corsa, un treno che potrebbe deragliare e a cui la stessa la società civile sta chiedendo di rallentare. In vista dell'approdo in aula per il 20 settembre - e con la scadenza per la presentazione degli emendamenti fissata a lunedì prossimo - le audizioni delle associazioni nelle commissioni giustizia e affari costituzionali della camera hanno chiesto ieri una maggiore riflessione e un'apertura verso un'azione più complessa e ampia. Un problema di cui Lunetta Savino, a nome di Snoq Factory, ha dato bene il senso, dicendo che «la violenza sulle donne riguarda la società intera e non solo gli uomini», e che per questo si risolve solo intervenendo in profondità «sulla formazione, la presa in carica dei violenti, sui media, la scuola, e con un forte spostamento culturale e simbolico».
Titti Carrano, presidente della rete dei centri antiviolenza DiRe, ha sottolineato come per contrastare la violenza maschile sulle donne, sia necessaria «una rete funzionante, un numero di centri antiviolenza adeguato, un'adeguata protezione». «Per quanto ci riguarda - ha detto - ci aspettavamo una legge organica con un congruo finanziamento e invece ci troviamo di fronte a un decreto che affronta il fenomeno solo su un piano penale», e che considera ancora la violenza sulle donne come una «emergenza sociale, mentre è stato detto molte volte che si tratta di un problema strutturale». Ma le magagne di questo decreto si trovano soprattutto tra le sue pieghe, perché oltre a tralasciare l'approccio culturale e strutturale, inciampa anche sul fronte giuridico-penale. Come osservato dall'Associazione nazionale magistrati nell'audizione, questo decreto rischia di «introdurre elementi che non sono coerenti» con il codice penale, un giudizio su cui sembra concordare anche l'Unione delle camere penali.
Sulla violenza assistita dai minori, per esempio, che innalza l'età dai 14 ai 18 anni, è stato rilevato da più parti come sia insufficiente l'applicazione solo ai maltrattamenti, in quanto la stessa Convenzione di Istanbul la riconosce in tutte le situazioni di violenza intrafamiliare, dando ben altre indicazioni (come il divieto di affido condiviso tra coniugi che si separano in una situazione di violenza domestica). 
Incongruenze che Barbara Spinelli - avvocata dei Giuristi democratici che ha parlato a nome della Convenzione «No More» insieme a Vittoria Tola dell'Udi - ha sottolineato prendendo in considerazione l'articolo 2. «La più grossa incongruenza - dice Spinelli - è quando si introducono i vari obblighi di informazione e protezione della vittima nel processo penale per il maltrattamento, perché si tratta di obblighi già introdotti dalla direttiva europea 29 del 2012 come spettanti a tutte le vittime di reato doloso per tutto il processo penale. Una direttiva su cui, tra l'altro, il parlamento italiano ha dato mandato al governo con la legge comunitaria 2013 entrata in vigore il 20 agosto, cioè 4 giorni dopo il decreto sul femminicidio». In poche parole un inaccettabile restringimento della stessa direttiva europea. In un decreto che torma indietro anche quando definisce la violenza domestica come fenomeno «non episodico» - e non come violenza in sé - con un passaggio in chiara contraddizione con la Convenzione di Istanbul che invece ne definisce i termini in maniera più ampia e realistica, in sintonia con tutta la letteratura internazionale sul tema. 
Anche Vittoria Tola, responsabile nazionale dell'Udi, ha segnalato incongruenze del decreto, facendo notare come l'articolo 5, che chiede un piano antiviolenza straordinario, sia davvero curioso in quanto «ce ne è già uno in corso in Italia che deve essere verificato a novembre». «Noi vogliamo che il parlamento si interroghi su quello che stiamo dicendo qui e imposti un dialogo con le associazioni», ha detto Tola, aggiungendo una nota anche folkloristica sulla confusione del linguaggio usato nel decreto dove si parla di violenza sessuale, stalking e violenza di genere, senza riconoscere che le prime due sono interne a quest'ultima definizione.

ACEA: Sindaci che decidono di non decidere

Marco Infussi

La scelta dei sindaci ciociari di rinviare la decisione sulla risoluzione del contratto con l’Acea manda su tutte le furie i comitati e le associazioni che si battono per il ritorno alla gestione pubblica del servizio idrico.
Il “Comitato acqua pubblica” di Ceccano, attraverso il caro amico Domenico
Aversa: «Al di là di una stretta minoranza di sindaci che concretamente si sono espressi a favore della risoluzione del contratto con Acea, la stragrande maggioranza ancora una volta ha deciso di non decidere, approvando una mozione che allunga in modo insensato i problemi concreti dei cittadini omettendo volontariamente di votare un punto all'ordine del giorno; alla faccia della democrazia e al rispetto dei cittadini che li hanno eletti!».

«Il Sindaco Maliziola sulla questione Acea predica bene ma razzola male - accusa Aversa: nella conferenza dei sindaci invece di mostrarsi determinata a sostenere la risoluzione del contratto, così come chiede la quasi totalità dei cittadini ceccanesi, si è fatta promotrice della mozione di allungamento dei tempi, dimostrando la sua subalternità al Pd e in linea con il nuovo quadro politico amministrativo che la sostiene».

«Nei prossimi giorni faremo il punto della situazione con gli altri
comitati della provincia per programmare nuove iniziative a sostegno delle rivendicazioni dei cittadini»



PATRIZI CALPESTA DEMOCRAZIA E DIRITTI DEI CITTADINI

IL COORDINAMENTO PROVINCIALE ACQUA PUBBLICA DI FROSINONE

Quanto avvenuto nell’assemblea dei sindaci di lunedì 9 settembre è di una gravità inaudita.
Gli interessi forti, in primo luogo quelli di ACEA hanno prevalso sui diritti dei cittadini.
Non solo, il comportamento di chi presiedeva l’assemblea, il commissario Patrizi, è stato semplicemente inqualificabile: lo stesso ordine del giorno per il quale l’assemblea era stata convocata, quello con il quale oltre trenta sindaci chiedevano che l’assemblea deliberasse la risoluzione del contratto con ACEA, è scomparso dall’ordine dei lavori e chi, come il sindaco di Torrice, si batteva come una leonessa perché l’assemblea si esprimesse, è stato
addirittura aggredito fisicamente da un altro sindaco, indegno della carica che ricopre, mentre l’ineffabile Patrizi se la prendeva con gli indignati cittadini presenti.
Il giochino dei rimandi di cui sono responsabili trasversalmente gli schieramenti politici (PD, PDL e PSI) lascia ancora una volta i cittadini in balia di un gestore che quotidianamente può continuare a vessarli in cambio di un servizio inesistente.
Il Coordinamento Acqua Pubblica della Provincia di Frosinone ringrazia i nove sindaci che hanno disubbidito agli ordini dei capobastone ergendosi così a presidio della democrazia e dei diritti dei cittadini.
Come Coordinamento Acqua Pubblica della Provincia di Frosinone invitiamo questi sindaci a dare seguito alla loro battaglia nel coordinamento “ COMUNI ATTIVI PER L'ACQUA PUBBLICA” costituitosi giovedì 5 settembre e chiediamo anche agli altri sindaci che ieri non hanno dimostrato il necessario coraggio, ad unirsi a questa battaglia.
Come cittadini assicuriamo tutti ‐ gestore, commissario, sindaci e partiti – che questa ennesima cialtronata non ci farà recedere di un solo centimetro e continueremo la nostra battaglia in ogni sede a difesa delle nostre vite, dei nostri comuni e del nostro territorio. Invitiamo tutti a partecipare all’assemblea che terremo sabato 14 alle ore 18 a Torrice, nella sala consiliare del Comune.




LICENZIAMENTO OPERAIO EMMERRE E' UN VERGOGNOSO ATTO DI RITORSIONE DIREZIONE ILVA

Michele Rizzi, Coordinatore regionale alternativa comunista, e Francesco Carbonara, Portavoce Presidio Om carrelli Bari, 

Il licenziamento in tronco del lavoratore Marco Zanframundo è sicuramente un vergognoso atto di ritorsione della direzione dell'Ilva. E' a dir poco strano che questo lavoratore che per quindici anni non ha mai avuto nemmeno un richiamo verbale di colpo veda ricevere negli ultimi due mesi otto lettere di contestazione e un licenziamento. Noi siamo più che convinti che il licenziamento sia da attribuire al fatto che Marco Zanframundo abbia più voltedenunciato problemi di sicurezza che affliggono i lavoratori sul luogo di lavoro specie nel reparto della movimentazione ferroviaria dove è rimasto ucciso Claudio Marsella. La lotta contro i soprusi padronali spesso porta alla ritorsione aziendale, come nel caso di Marco e di altri operai che non hanno mai voluto chinare la testa davanti ai Riva e ai suoi prestanome come lo stesso Bondi. Noi esprimiamo solidarietà a Marco, appoggiamo la lotta serrata di questi giorni dei lavoratori, ne chiediamo l'immediata riassunzione, come quella dei lavoratori della ditta esterna Emmerre. I Riva e i loro prestanome continuano a far danni ambientali e a colpire i lavoratori. Per questo siamo sempre più convinti che l'Ilva vada nazionalizzata senza indennizzo, riconvertita e gestita direttamente dai lavoratori.

martedì 10 settembre 2013

Crisi Marangoni: un film già visto

Luciano Granieri


Nella nostra martoriata provincia  ancora una volta  assistiamo sgomenti alla rabbia di operai che scendono in piazza per reclamare il loro sacrosanto diritto al lavoro. Dopo la Videocon, la Multiservizi, è la volta della Marangoni Tyre di Anagni. 

410 operai, dopo aver visto la propria azienda delocalizzare in Argentina, dopo aver acconsentito a ridursi lo stipendio per agevolarne un rilancio della competitività, al rientro delle ferie si sono ritrovati con le loro famiglie in mezzo ad una strada. Sull’altare del profitto economico (Marangoni e Videocon) e di quello politico (Multiservizi), la nostra Provincia sta scarificando migliaia di posti di lavoro. 

Un territorio sedotto e abbandonato dal miraggio della industrializzazione drogata dalla cassa del mezzogiorno.  Soldi pubblici che hanno permesso a squali dell’imprenditoria senza scrupoli di violare un intero territorio dalle elevate potenzialità agricole e turistiche . Dopo decenni di sfruttamento di lavoratori e risorse naturali, questi signori  scappano con i soldi lasciando sul campo  solo macerie. 

Una direttrice infernale che collega il basso Lazio ciociaro con la provincia meridionale di Roma, oggi presenta scenari inquietanti, popolati da eco mostri, scheletri di strutture piene di amianto, terra, aria e falde acquifere infestate da agenti chimici e veleni industriali, oltre che dai rifiuti tossici interrati dalla camorra. Questo è il lascito di devastazione ambientale a cui si associa la devastazione sociale con migliaia di operai licenziati. 

La Marangoni è solo l’ultimo atto. Un azienda che prima ha tentato di violentare il territorio cercando di aprire ,  in località quattro strade, un letale e inquinante impianto di incenerimento del car fluff (le parti non metalliche delle carcasse di autovetture), e oggi sta violentano la dignità di 410 lavoratori. 

E’ iniziata la solita disperata e mesta trafila con i sindacati che strillano dopo aver  concesso di tutto al padrone, i lavoratori in sit-in davanti alla prefettura e poi al palazzo della Provincia, l’interessamento del Prefetto Eugenio  Soldà, che ormai in questa disgraziata città sembra svolgere per lo più incarichi di tipo sindacale.  

Ha preso il via la corsa di solidarietà di politici in malafede e istituzioni locali conniventi, con le solite promesse, l’interessamento urgente delle amministrazioni regionali e perfino il ricorso al ministro del lavoro. Un film drammatico il cui finale è già scritto come dimostrano  le  vicende Videocon e Multiservizi. 

Ironia della sorte   la vicenda Marangoni avviene subito dopo  che la Regione Lazio e il Ministero dello sviluppo economico hanno destinato 81 milioni di euro per l’area industriale di Frosinone ed Anagni. Soldi che dovrebbero favorire lo sviluppo e il rilancio economico dell’area, ma che rischiano di diventare lì’ennesimo regalo ad una classe finanziaria e imprenditoriale senza scrupoli, pronta a usare fondi pubblici per alimentare speculazioni e realizzare smisurati profitti privati.  

Purtroppo l’ennesima triste storia di privazione del lavoro  sembra non insegnare  nulla. Ormai dovrebbe essere evidente che i soldi pubblici, devono servire non a ricapitalizzare  genericamente le aziende, ma a finanziare veri e propri piani industriali. E’ inutile incentivare produzioni obsolete, inquinanti, e di scarso successo commerciale. 

E’ necessario usare i soldi pubblici per finanziare piani industriali innovativi. Si può comprimere il costo del lavoro finchè si vuole ma  se ciò che si produce non si vende, sarà tutto inutile. Questi benedetti 81 milioni di euro andrebbero destinati per  finanziare  progetti industriali  innovativi, di qualità. E una volta  selezionate  le aziende da  aiutare  perché  propongono    idee nuove  su  produzioni e procedure, porle sotto il diretto controllo di Stato e Regione per  verificare   che portino a termine il lavoro per cui sono stati erogati i fondi, si impegnino a non licenziare e a stabilizzare i lavoratori precari presenti nell’organico. 

Deve finire l’era del profitto privato a fronte di perdite pubbliche.  Deve chiudersi il tempo   delle elargizioni pubbliche alle classi padronali senza alcun controllo. Il finanziamento  pubblico di una fabbrica  anche di solo un euro, deve prevedere il controllo sull’attività di quella azienda  da parte dello Stato . 

Ad esempio espropriare la Marangoni senza indennizzo per la proprietà, riassorbire gli operai  cui verrà affidata la gestione dell’azienda e riconvertire l’attività industriale nella produzione di impianti per l’erogazione di energia pulita, potrebbe costituire  un bel modo di utilizzare fondi pubblici, far ripartire l’economia  e salvare 410 famiglie dall’indigenza. Questo veramente  potrebbe essere una finale a sorpresa del film già visto. Ma necessitano nuovi registi illuminati che nell’attuale scenario cinematografico della tutela della dignità umana non esistono.  

lunedì 9 settembre 2013

Il partigiano Johny nella notte di Allende

Luis Sepulveda, la Repubblica, 9 settembre 2013

Il giorno più nero della storia del Cile spuntò coperto di nuvole. La primavera alle porte, atterrita dall’orrore che si avvicinava, aveva deciso di negarci i primi tepori. Alle sei del mattino Salvador Allende, il Compagno Presidente, ricevette le prime informazioni sul golpe imminente e diede ordine alla scorta, al Gap, di lasciare la residenza di calle Tomás Moro per raggiungere il palazzo de La Moneda.
Un contingente del Gap – Gruppo di Amici Personali – rimase a garantire la sicurezza della residenza e il resto si mise in marcia armato di kalashnikov. Fra i Gap che uscirono insieme al Compagno Presidente c’erano tre ragazzi molto giovani: Juan Alejandro Vargas Contreras, ventitré anni, studente; Julio Hernán Moreno Pulgar, ventiquattro anni, studente e dipendente del palazzo presidenziale e Óscar Reinaldo Lagos Ríos, ventun anni, studente e operaio in un’azienda agroalimentare. Tutti e tre erano militanti della Federación Juvenil Socialista. E oggi, a quarant’anni dal colpo di stato che ha messo fine al più bel sogno collettivo, voglio parlare di uno di loro, di Óscar, un ragazzo cileno pieno di coraggio e generosità.
Óscar era più giovane di me, ci separavano solo due anni, ma visto quanto era intenso il nostro impegno per la Rivoluzione cilena, visti la dedizione totale e il rigore con cui affrontavamo i mille compiti del Governo Popolare, quei due anni scarsi di differenza mi conferivano una certa anzianità. Anch’io avevo avuto l’onore — il più grande onore che mi sia stato concesso in vita — di far parte del GAP, ma dopo aver trascorso quattro mesi nella scorta del Compagno Presidente ero stato chiamato a maggiori responsabilità. Così, a ventidue anni, mi ero ritrovato supervisore di un’azienda agroalimentare a sud di Santiago. Là avevo conosciuto un giovane socialista che si chiamava Óscar Reinaldo Lagos Ríos e che combinava il suo lavoro di meccanico nell’azienda agroalimentare con gli studi in un istituto industriale e con la militanza socialista. Óscar amava il tornio e la fresatrice. Tra i suoi progetti c’era quello di diventare un buon tornitore, un operaio specializzato. Fin dal primo momento si trasformò nel mio braccio destro e più volte respingemmo insieme gli attacchi del gruppo fascista Patria y Libertad, che voleva assassinare i dirigenti sindacali e incendiare i nostri posti di lavoro.
Spesso Óscar portava a passeggio mio figlio Carlos Lenin, che cominciava allora a camminare, e ogni due o tre giorni prendeva in prestito un libro, un romanzo, una raccolta di poesie, qualche saggio sociopolitico. Un pomeriggio, mentre facevamo il nostro turno di guardia, lo vidi leggere e piangere senza nascondere le lacrime. Stava leggendo La sangre y la esperanzadi uno scrittore cileno ormai dimenticato, Nicomedes Guzmán. All’improvviso chiuse il libro, si asciugò gli occhi ed esclamò: «Compagno, ora sì che ho capito perché facciamo la rivoluzione».
Óscar si era sempre distinto come lavoratore, per il senso dell’umorismo che traspariva dalle canzoni degli Iracundos che cantava mentre riparava i macchinari e per l’esemplare solidarietà (era sempre l’ultimo al momento di comprare gli alimenti che trattavamo e che la borghesia si accaparrava per far mancare i rifornimenti), ma si distingueva anche come militante, acuto nelle sue analisi e convincente grazie ad argomenti ancora più acuti. E poiché il GAP era formato dai militanti migliori, un giorno parlai di lui raccomandandolo e ricevetti l’ordine di addestrarlo. Così Óscar imparò a usare un’arma, a pulirla, ricevette i primi rudimenti di difesa personale e di procedure di sicurezza. Quando entrò a far parte del GAP, il più grande onore per un militante, festeggiammo a casa sua, con la sua famiglia umile e generosa. Poi ci perdemmo di vista perché i tanti compiti della Rivoluzione Cilena ci tenevano molto occupati e la giornata era sempre troppo breve, dormivamo poco, ma non perdevamo mai di vista l’importanza di quel che facevamo. Non avevamo diritto né alla stanchezza né allo scoramento. Stavamo costruendo un Paese giusto, fraterno, solidale, seguendo una via cilena, rispettando tutte le libertà e i diritti. E per di più avevamo un leader che ci dava un grande esempio con la sua statura morale.
Un giorno incontrai Óscar a El Cañaveral, una residenza di campagna sulle pendici della cordigliera delle Ande dove il Compagno Presidente andava a riposare. Insieme ad altri due GAP sorvegliava l’ala nord. Ci abbracciammo e quando gli chiesi il nome di battaglia — io ero e continuo a essere Iván per i GAP sopravvissuti — lui rispose: «“Johny”, è quello il mio nome di battaglia, Johny, ma non l’ho scelto io: me l’ha dato il dottor Allende un giorno che mi ha sentito cantare».
Quell’11 settembre 1973, poco prima delle sette di mattina, Salvador Allende e la sua scorta formata da tredici membri del GAP entrarono alla Moneda. Il golpe fascista era iniziato, truppe e carri armati accerchiarono il palazzo, riecheggiarono i primi spari tra difensori e golpisti, le forze aeree bombardarono le antenne delle radio finché ne rimase soltanto una, quella di radio Magallanes, grazie alla quale ascoltammo e avremmo ascoltato le ultime parole del compagno presidente, quel «metallo tranquillo della mia voce».
Con la Moneda assediata, Allende diede ordine di far uscire chiunque lo desiderasse, lui sarebbe rimasto a baluardo della Costituzione e della legalità democratica. In mezzo ai colpi d’arma da fuoco e ai proiettili esplosivi del-l’artiglieria, un pugno di poliziotti socialisti decise di restare, e anche i GAP dissero chiaramente che la guardia non si arrendeva né abbandonava il Compagno Presidente. Fra Allende, i poliziotti rimasti fedeli, il medico del presidente, il giornalista Augusto Olivares e i tredici GAP non erano più di ventidue, ma affrontarono migliaia di soldati golpisti.
Quando era quasi mezzogiorno, le forze aeree bombardarono la Moneda, le fiamme cominciarono a divampare nel palazzo ma il GAP non mollò. Rimane per sempre un’immagine di quel momento: il GAP Antonio Aguirre Vásquez, un patagone eroico, che spara dal balcone principale con la sua mitragliatrice calibro 30 finché le bombe non cancellano completamente la facciata della Moneda. Il simbolo della democrazia cilena, la cosiddetta casa di Toesca bruciava, Allende era morto e Óscar Lagos Ríos, Johny, era stato colpito da due pallottole, ma era ancora vivo. Alle due del pomeriggio, ormai senza più artiglieria, con le munizioni esaurite, i sopravvissuti di quel pugno dipoliziotti e uomini del GAP uscirono dalle macerie e furono immediatamente fatti salire su un camion militare con destinazione ignota. I poliziotti riuscirono a salvarsi la vita, passarono attraverso atroci torture ma sopravvissero. I tredici GAP scomparvero.
In Cile, tuttavia, la terra parla e così è stata scoperta una fossa comune clandestina in un campo militare abbandonato, Fuerte Arteaga, e in quella fossa c’erano più di quattrocento pezzi di ossa umane, alcuni lunghi meno di un centimetro, e quei pezzetti minuscoli hanno raccontato che i tredici GAP erano stati torturati, mutilati, assassinati dalla soldataglia in un’orgia di sangue, durata vari giorni, a cui avevano partecipato ufficiali e truppa del reggimento Tacna. I GAP erano stati sepolti nella caserma, ma quando alcuni testimoni avevano dichiarato di poter indicare il luogo dell’occultamento, i resti degli eroici combattenti della Moneda erano stati trasferiti a Fuerte Arteaga, gettati in una buca profonda dieci metri, fatti saltare in aria con la dinamite e infine coperti di terra.

È impossibile ridurre al silenzio la voce dei combattenti e le loro ossa minuscole hanno rivelato i loro nomi, hanno detto: «Io sono ciò che resta di Óscar Reinaldo Lagos Ríos, ventun anni, nome di battaglia Johny, GAP, assassinato il 13 settembre 1973». Una mattina del 2010, un corteo con in testa tre carri funebri è passato davanti al palazzo della Moneda. A scortarli c’erano uomini e donne di oltre sessant’anni che al braccio sinistro esibivano con orgoglio un nastro rosso con la sigla GAP. Scortavamo Juan Alejandro Vargas Contreras, ventitré anni, Julio Hernán Moreno Pulgar, ventiquattro anni e Óscar, quel Johny che aveva preso il fucile quando bisognava farlo.

nostri compagni oggi riposano nel mausoleo degli eroi, accanto alla tomba del Compagno Presidente. Il GAP non si arrende.Onore e gloria ai combattenti della Moneda. Viva i compagni!
Traduzione di Ilide Carmignani

domenica 8 settembre 2013

WHY DIDN’T THE U.S. INVADE ISRAEL WHEN IT USED CHEMICAL WEAPONS ON PALESTINIANS?

Icarus from http://www.apartheidexists.com/

I want you to remember this picture when you think of Israel’s use of chemical weapons every time someone parrots the talking points of the Israeli government.  This picture was taken in Gaza, Palestine; this is a war crime.  


No this isn’t photoshopped.  If this isn’t a war crime then I don’t know what is.   
Now – when discussing Israel’s use of chemical weapons – I have heard many justifications, excuses and obfuscations to minimize the criminal element of “Operation Cast Lead” that lasted just over 3 weeks from December 28th, 2008 to January 18th, 2009.  The timing of Operation Cast Lead is important since the U.S. and the world was focused on the horror of an economic downward spiral and the hope of a new way forward … President Barack Obama was waiting for his inauguration at this point. Now – many Israel advocates like to claim that this isn’t illegal and that Israel used white phosphorous (which is irrefutable and the Israeli government acknowledges) only as a smoke screen.
Under international law – white phosphorous may be used as a smoke screen but not on civilian populations.  Gaza is one of the most densely populated ares in the world and Israel’s use of white phosphorous is very clearly being used over civilian areas.  Operation Cast Lead resulted in between 1,166 and 1,417 Palestinian and 13 Israeli deaths; 4 of them were from friendly fire. The United Nations conducted an investigation and released the now famous Goldstone report which acknowledged that Israel’s use of white phosphorous was indeed a war crime.  It was after significant pressure and a couple of years later – the author retracted his report’s findings.  The United Nations Human Right Council, however, still found Israel guilty of war crimes and they ordered that Israel compensate Palestinian families for the damage caused by the Israeli government.  They wrote HERE:
The approval of USD 85 million worth of United Nations projects remains pending. Israel recently released 20,000 tons of construction materials for Gaza’s private sector. However, the border closures and restrictions on passage through border crossings continue to seriously negatively affect the population of the Gaza Strip. Over 75 per cent of the units needed to replace homes destroyed during Operation Cast Lead have not been constructed. Gaza’s unemployment rate remains high. This combines with the urgent demand for construction materials to reconstruct homes, schools and other infrastructure to result in thousands of people continuing to risk their lives to work in tunnels along the border with Egypt.
If another country took this kind of action – the U.S. would be invading them.  Not only did the U.S. not invade Israel, we give them money to continue their human rights violations and we continue to veto any resolution to hold Israel accountable on the UN security council.  And we wonder why so many other countries hate the U.S.  Quite simply – we live by double standards.  We support democracy only if its the result we want i.e. Gaza 2006, Iran 1953, Guatemala 1954, Congo 1960, Dominican Republican 1961, South Vietnam 1963, Brazil 1964, and Chile 1973   to name only a select few not including many attempted coup attempts like Venezuela 2002.
The double standard continues for the use of chemical weapons.  President Obama is looking to attack Syria after an apparent chemical weapons attack although there are reports that these chemical weapons attack were in fact not committed by the Syrian government  .  President Obama claims that we must set a red line for those countries willing to utilize chemical weapons; he has however not taken the same stance with the Israeli government despite countless human rights violations.  One of the most ironic elements of this entire situation is that the #1 force pushing for an attack on Syria is Israel and their lobbying arm AIPAC  
Israel’s military has said that it will not use white phosphorous “for the time being” with two exceptions that the state attorney would not disclose in a public hearing in front of the Israeli High Court; the Israeli High Court dismissed a petition to make the use of white phosphorous illegal  .  So – the Israeli military can’t be held accountable externally because the U.S. blocks any resolutions on the UN Security Council and it won’t be held accountable internally because the Israeli High Court has prioritized the promises of the military over “right and wrong”.









8 settembre 1943 – "IO NON HO TRADITO"


In effetti, quel giorno alcuni eSSeri criminali aSSaSSini hanno scelto di non "tradire" la dittatura, un dittatore, ed i loro padroni SS con quegli stessi che avevano già commesso e avrebbero commesso in futuro i peggiori crimini in Italia contro il Popolo Italiano e contro i suoi eroici Partigiani... Non c'è che dire... COMPLIMENTI !

Altre persone quel giorno hanno deciso di rimanere fedeli a Valori umani e civili e hanno iniziato a lottare, o allora più che mai hanno continuato a lottare, contro il nazifascismo per liberare l'Italia da questi aSSaSSini. 

GLORIA ETERNA AI PARTIGIANI E ALLA RESISTENZA ITALIANA


DON GALLO.  27.12.2012