Io e il mio amico Andrea Zanchi, maestro di tennis per
sbarcare il lunario, ma pianista di jazz dalle eccellenti ambizioni, passavamo
interi pomeriggi a suonare nella sala
teatro all’interno
dello studentato universitario di Via Spinola vicino alla Garbatella. Un pianoforte a mezza coda non del tutto messo
male, e una batteria approssimativa, erano
gli strumenti dove io (come schiatta pelli) e Andrea (al piano) provavamo standards jazzistici cercando di
ispirarci alle performance del trio di Keith Jarret con Jack De Johnnette alla
batteria e Gary Peacock al contrabbasso. Ovviamente da noi non c’era il contrabbasso,
ma con buona volontà e applicazione, fra un glissato, una spazzolata qua e là, andavamo
avanti ad improvvisare su “Stella by Starlight””, “All the Thigs you are” e altri pezzi.
Andrea era amico di Enrico
Pieranunzi, uno pianista jazz di fama internazionale. Spesso prendeva lezioni
da lui. Dopo aver suonato rimanevamo seduti nel giardino della casa dello
studente a parlare della necessità di
trovare un contrabbassista, ma anche di tante altre cose inerenti la nostra musica preferita. Fantasticavamo sulla
possibilità un giorno di esibirci nei jazz club e nei festival estivi. Fantasie
appunto, perché non ci sentivamo in grado di affrontare il pubblico, per di più
senza contrabbassista.
Una sera dopo aver suonato di buona lena, Andrea mi invitò ad un concerto
di Enrico Pieranunzi . Non era la prima volta che assistevo ad una esibizione
del pianista romano, ma in quella occasione particolare, grazie ad Andrea,
avrei potuto conoscerlo. La performance si sarebbe svolta all’Alexanderplatz. Un nuovo locale sito nel
quartiere Prati a due passi dal Vaticano.
Non ero mai stato all’Alexanderplatz,
ero assiduo frequentatore del Music Inn, ma in quel nuovo jazz club non c’ero
mai capitato.
Con la Renault 4 di Andrea arriviamo un po’ troppo presto. Assistemmo
alla titanica impresa di Riccardo Del
Fra impegnato a tirare fuori il contrabbasso da una vecchia station wagon. Gli demmo
una mano. Il locale non era grande ma
molto accogliente. Mentre aspettavamo l’arrivo di Enrico, buttammo un’occhiata in
giro. Era veramente un bel posto. Sobrio con il pavimento a scacchi, un arco
che sovrastava il palco, tavoli e sedie in legno brunito a formare un’atmosfera
calda e accogliente. Siamo a metà degli anni ’80 il jazz italiano era in piena
espansione e Roma stava diventando la capitale europea della musica
afroamericana. Un locale come l’Alexanderplatz, avrebbe certamente contribuito
ad arricchire la fama della Città eterna come grande punto d’incontro dei grandi
maestri del jazz mondiale.
Arrivò Enrico, insieme a Roberto Gatto, uno dei più
grandi batteristi italiani in circolazione. A questo punto si capisce quale sarebbe stata la formazione
che avrebbe accompagnato Pieranunzi quella sera, ma per chi non è addentro alle
cose jazzistiche la ricordiamo. Suonavano Enrico Pieranunzi al pianoforte,
Riccardo Del Fra al contrabbasso e Roberto Gatto alla batteria. Andrea mi
presentò Enrico, ci parlò degli studi che stava facendo su Bill Evans,
scherzammo con lui sulle nostre velleità di jazzisti in erba.
Iniziò il
concerto. Un set straordinario, Mentre
Riccardo Del Fra era impegnato in un assolo vedo che Enrico chiama Andrea. I
due parlano fitto. Alla fine il maestro di tennis , con la faccia stralunata si
avvicina e mi fa. “Enrico vuole che andiamo a suonare”. “Dove quando?” chiedo
io. “ Nella pausa fra la prima e la seconda parte del concerto” è la risposta. “Che
suoniamo, come suoniamo……” mentre balbetto queste parole incredulo Andrea aggiunge
che Riccardo si unirà a noi con il Contrabbasso.
Insomma alla fine ci facemmo
coraggio salimmo sul palco. Suonammo “God Bless the Child” in una versione
tendente al funky, così come proposto dal trio Jarrett, De Johnnette,
Peacock nel disco “Standards Vol.1. Ci
facemmo prendere la mano e grazie al robusto contributo di Del Fra ci divertimmo ad improvvisare anche su “All Blues” venne fuori una buona prestazione, per lo meno
il pubblico parve gradire, ma soprattutto Enrico, Roberto e Riccardo ci fecero
i complimenti. Vivemmo il nostro quarto
d’ora di gloria. Non so per Andrea, ma per me fu uno dei quarti d’ora più belli
della vita.
Questa storia, inventata ma non troppo, fa
parte di quelle storie che possono nascere
solo nel variegato mondo del jazz e in posti straordinari come l’Alexanderplatz.
l’Alexanderplatz, dopo aver ospitato
musicisti del calibro di Chick Corea, Chet Baker, Billy Higgins, Michel Petrucciani, Michael Brecker, e molti altri straordinari jazzisti, oggi sta
per chiudere. L’8 luglio scorso è
arrivato un avviso di sfratto per morosità. 20 mila euro fra affitti e bollette, impegni che la famiglia Rubei, instancabile organizzatrice
degli eventi, tutti portati avanti senza il minimo aiuto pubblico, non ce la fa
più ad onorare.
Per decenni la passione
di queste persone ha trasformato l’Alexnderplatz nel più famoso jazz club della Capitale,
dando lustro culturale alla città di Roma. Ma se non si raccoglie la cifra necessaria
entro il 28 luglio questo tempio del jazz, questa culla di sogni e di speranze
è destinata a morire. Non è un bel
segnale se si affianca alla chiusura di musei e allo smantellamento di Cinecittà.
E’ anzi il segno inequivocabile che la grande bellezza della Città eterna
sfiorisce perdendo petalo dopo petalo.
Eugenio Rubei proprietario del locale ha
lanciato un appello a musicisti e appassionati per una raccolta fondi che
raggiunga entro tre giorni la cifra richiesta per evitare lo sfratto . La risposta
dei musicisti non si è fatta attendere. Hanno subito raccolto l’appello: Javier
Girotto, Alfredo Paixao, Ada Montellanico, Marcio Rangel, Flavio Boltro, Nicola
Angelucci, Antonello Salis, Ronnie Cuber, Ezio Stuardi e All Over Gospel Choir,
Mauro Zazzarini e Fabio Mariani. Basterebbe un contributo minimo anche
da parte del comune, degli aiuti per aprire una scuola di musica ad esempio. Ma
il sindaco Marino è disposto ad aiutare musicisti e appassionati per far
continuare a vivere questo tempio della cultura, questa fabbrica di sogni e creatività?
Lo dobbiamo e lo vogliamo sperare.