A cura di Luciano Granieri
Il mio pessimismo è legato alle grandi, e forse insuperabili, imposizioni a cui lo Stato Italiano deve far fronte per accedere al Recovery Fund. I fondi arriveranno, se arriveranno, non prima del 2022. Anzi alla luce dei ritardi, dovuti all’approvazione dei programmi attuativi causati dai paesi di Visegard, che stanno bloccando tutto, reclamando l’eliminazione della clausole sul rispetto dei diritti umani e civili, è possibile che i termini potrebbero slittare ulteriormente.
A tal proposito pubblico, di seguito, un articolo di Guido Salerno Aletta, editorialista del giornale on line “Teleborsa.it” (non un organo d’informazione comunista quindi) in cui sono spiegati per filo e per segno tutti i salti mortali che l’Italia dovrà fare per accedere al Recovery Fund, delegando di fatto tutta la propria politica economica ai burocrati di Bruxelles.
A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina.
A me sembra piuttosto evidente il tentativo di spingere i Paesi membri ad
accettare il Mes rendendo quasi impossibile l'accesso al Recovery Fund. Non più il Mes della Troika, certo, ma quello le cui uniche condizionalità sono legate alla spesa sanitarie e con un tassi d’interessi
quasi negativi, ma a preoccupare è la prescrizione che si legge a margine
del regolamento del Mes:
Chiaro no? Alla fine dell’emergenza sanitaria lo Stato Italiano, che nel frattempo avrà accumulato un rapporto debito/pil del 160% e un rapporto deficit/pil al 9% dovrà rafforzare i fondamentali economici secondo i dettami di sorveglianza fiscale dettati da Bruxelles. Quindi adoperarsi per riportare il rapporto debito/pil il più possibile vicino al 60% e il deficit/pil al 2,qualcosa%.
Come potrà farlo? Intanto tagliando quelle stesse spese sanitarie per cui ha ricevuto il prestito, poi flagellando la scuola, lo stato sociale e privatizzando quel poco che c’è rimasto da privatizzare. La realtà è una e una sola. Fino a quando i Paesi Europei per finanziare la spesa necessaria ad uno sviluppo sostenibile, alla creazione di posti di lavoro “VERI” dovranno prendere i soldi a prestito dai mercati finanziari -magari protetti dalle scorribande degli squali investitori grazie allo scudo della BCE (leggi quantitative easing) teso a non innalzare troppo i tassi - non ci sarà alcuna forma di Recovery che non sia vincolata o a spese per interessi elevati, o a condizionamenti di politica economica imposti dalla Ue ai governi per tutelare gli interessi del Capitale.
Buona lettura
A Bruxelles piace il passo dell’Oca
Il Recovery Fund inchioda gli Stati ai tavoli
burocratici, con vincoli di ogni genere e procedure defatiganti
Editorialista dell'Agenzia Teleborsa
Il sogno europeo si è trasformato in un incubo: la robotizzazione dell'Unione procede inarrestabile, tra vincoli, condizioni, obiettivi e rendiconti. Con il Recovery Fund si prepara un nuovo manicomio burocratico che ci farà impazzire.
E'
più di una camicia di forza, un vero e proprio letto di contenzione. Il calcolo
astruso dell'output gap o
del NAWRU, previsti per
rientrare nei parametri del Fiscal Compact, era solo un gioco da ragazzi.
Da Bruxelles si completa giornalmente il quadro
delle regole per l'utilizzo delle risorse previste dal
Recovery Fund, scritte apposta per inchiodare gli Stati al tavolo
di un gioco di potere che ne limita ulteriormente la sovranità.
Più soldi si chiedono e più sarà alto il grado di
interferenza di Bruxelles: altro che vincolo esterno, stavolta
ci entrano fin dentro casa.
Ma ci sono ancora tanti illusi, che si fanno
abbindolare dal luccichio dei denari!
In Italia c'è infatti chi ancora festeggia, da
fine luglio ininterrottamente, perché non ha mai letto neppure uno dei tanti
documenti che si accatastano per gestire il Recovery Fund: gongolano, perché
pensano di spendere comodamente intanto i 65,4 miliardi di euro di "grant". Sono "sovvenzioni", somme da non restituire in quanto saranno finanziate con il contributo
degli Stati membri.
Pensano, ingenui che non sono altro, di poter
incassare tutto subito, e poi di spendere liberamente.
Vediamo invece come si
snoda il percorso.
L'Italia intanto verserà annualmente il proprio contributo
per finanziare questo Fondo Straordinario della Unione, in proporzione al
proprio PIL registrato nel 2019; ma in cambio riceverà assai di più, per tenere
conto della gravità della crisi sanitaria ed economica che l'ha colpita: questo
è il successo politico che ci si vanta di aver raggiunto.
In questo caso, si dice, l'Italia non sarà più un contributore
netto al bilancio dell'Unione: sarebbe un percettore
netto, anche se nessuno finora ha tirato giù i saldi complessivi,
del dare e dell'avere tra il Piano straordinario Next
Generation Ue ed il prossimo Quadro finanziario
settennale 2021-2027. Si fanno i conti senza l'oste.
In ogni caso, il totale di queste "sovvenzioni"
previste per il Recovery Fund a favore dei 27 Paesi dell'Ue è di 312,5
miliardi; di questi, il 70% va impegnato tra il 2021 ed il 2022, ed il restante
30% entro il 2023. I pagamenti saranno comunque scaglionati nel tempo, e già
questo fa venire i sudori freddi.
Per accelerare gli interventi, visto che il macchinone di
Bruxelles ha la lentezza di un elefante, si è deciso che il
10% degli importi assegnati a ciascuno Stato potrà essere concesso a titolo di
prefinanziamento entro il 2021. Come vedremo più avanti, è meno di un piatto di
lenticchie, ma di questi tempi non si butta via nulla.
A parte, rispetto alle sovvenzioni, verranno poi calcolati i prestiti, che ammonteranno
a 360 miliardi di euro, concedibili nel limite del 6,8% del PIL di ciascun
Paese, a meno che non ci siano circostanze eccezionali. Per
l'Italia ci sarebbero teoricamente 119 miliardi di euro. Ma si tratta di
un meccanismo ancora tutto da mettere in piedi.
In totale,
dunque, il Programma Next Generation Ue vale 672,5
miliardi di euro. Ci sono altri
progetti minori che portano alla cifra tonda di 750 miliardi.
Più che una cuccagna, Bruxelles ha preparato un vero e
proprio percorso ad ostacoli, con tempi, scadenze e condizioni di enorme
complessità tecnica, amministrativa e politica. Vediamo: a partire dal
15 ottobre prossimo, in pratica tra una ventina di giorni, i singoli Stati
possono cominciare a presentare alla Commissione i primi Piani
Nazionali per la Ripresa e la Resilienza (PNRR), con la scadenza
ultima fissata a fine aprile 2021. In pratica, ci si allinea con i tempi della
procedura standard del Braccio Preventivo del Programma di Stabilità e Crescita
(PSG).
I Piani nazionali saranno valutati dalla Commissione europea
entro due mesi dalla presentazione, tenendo conto della loro coerenza con le
raccomandazioni specifiche che sono state elaborate per ciascun Paese: da fine
aprile 2021 si arriva così a fine giugno.
Per
l'Italia, il PNRR sarà valutato tenendo conto soprattutto delle raccomandazioni
relative al 2019 (Raccomandazione
del Consiglio sul programma nazionale di riforma - 10165/19): è un elenco
sterminato di "prediche" e di richieste di riforme strutturali, che
vanno dalla lotta all'evasione fiscale alla riduzione della spesa per le
pensioni che è eccessiva. Finora erano sostanzialmente prediche inutili, perché
poi il governo faceva ciò che voleva: bastava rientrare nei limiti del deficit
ed avvicinarsi al pareggio strutturale. D'ora in poi, invece, queste
raccomandazioni avranno valore cogente, perché se
non seguiamo questi Comandamenti non ci approveranno i PNRR: ahi! Ecco che
cominciano i dolori!
Ulteriori criteri di valutazione per approvare
i Piani sono il rafforzamento del potenziale di crescita, la creazione di posti
di lavoro e la resilienza: non sono chiacchiere, perché il raggiungimento di
questi obiettivi condizionerà il pagamento da parte della Unione delle somme
che avremo speso. Questa è seconda la tagliola.
Praticamente, ci consegneremo legati mani e piedi, visto che
nella valutazione del PNRR il punteggio più alto deriverà in primo luogo dalla
sua coerenza con le raccomandazioni specifiche per Paese.
Solo successivamente si considerano il rafforzamento del
potenziale di crescita, la creazione di posti di lavoro e la resilienza sociale
ed economica dello Stato membro. Il contributo recato alla transizione verde e
digitale è addirittura una precondizione ai fini di una valutazione positiva:
altro che scrivere sotto dettatura! La discrezionalità degli Stati è ulteriormente
limitata da una serie di obiettivi qualitativi e quantitativi che sono stati
stabiliti dalla Commissione, attraverso le Indicazioni sulla redazione dei Piani nazionali di
ripresa e resilienza e sui progetti da presentare ai fini del finanziamento -
Comunicazione "Strategia annuale per una crescita sostenibile 2021" COM(2020) 575:
·
per la transizione verde, al fine di
conseguire la neutralità climatica entro il 2050 e la riduzione significativa
delle emissioni di gas entro il 2030, la spesa relativa al clima dovrà
ammontare almeno al 37%. Occorrono dunque riforme ed investimenti nel campo dell'energia,
dei trasporti, della decarbonizzazione dell'industria, dell'economia circolare,
della gestione delle acque e della biodiversità. Bisogna pure accelerare la
riduzione di emissioni tramite la rapida distribuzione di energie rinnovabili e
di idrogeno, l'efficienza energetica degli edifici, gli investimenti nella
mobilità sostenibile, la promozione di infrastrutture ambientali e la
protezione della biodiversità;
·
per la transizione digitale e produttività, bisogna dedicare
almeno il 20% delle risorse richieste.
C'è poi da rispettare il requisito della Stabilità macroeconomica, un punto assai dolente per l'Italia che ha un
elevatissimo rapporto debito pubblico/PIL. Anche se è stato sospeso il processo
di riaggiustamento previsto dal Fiscal Compact, l'equilibrio della finanza
pubblica rimane un requisito fondamentale: gli investimenti pubblici devono
aumentare, ma senza compromettere questo vincolo. Ci aspettano tagli su tagli.
Per l'Italia, il sentiero si fa sempre più impervio.
Paletti su paletti: i PNRR dovranno essere coerenti con le
informazioni contenute nei Programmi nazionali di riforma nell'ambito del
Semestre europeo (PNR), nei Piani nazionali per l'energia e il clima (PNIEC),
nei Piani territoriali per una transizione giusta, negli Accordi di
partenariato e nei programmi operativi a titolo dei fondi dell'Unione: un
ginepraio infernale.
Come se ancora non bastasse, la Commissione ha
diffuso le "Linee guida e modello
standard per la presentazione dei Piani di ripresa e resilienza" (Commission Staff Working Document SWD(2020)
205 final). E' una guida pratica, con tanto di modelli e prospetti da riempire:
un puzzle di dati di spesa, di tempi previsti, di obiettivi attesi, di criteri
di valutazione, fatto apposta per avere ogni scusa buona per intervenire,
sindacare, correggere, giudicare. E, ovviamente, per non pagare!
L'esame dei PNRR sarà coordinato da un'apposita task force della Commissione
per la ripresa e la resilienza, in stretta
collaborazione con la Direzione generale degli Affari economici e finanziari
(DG ECFIN).
La valutazione della Commissione, dopo aver ben
aggiustato confrontandosi con i vari governi le loro proposte di PNRR, sarà
quindi soggetta alla approvazione da parte del Consiglio della Unione europea,
che decide a maggioranza qualificata entro 4 settimane: siamo arrivati a fine
giugno, ed ora c'è luglio di mezzo.
Diciamo che, se tutto va bene, i PNRR saranno approvati ai primi di
agosto del 2021. Insomma, tra un anno
saremo finalmente al via.
C'è, come abbiamo visto, una procedura a
stralcio per il 2021, ma vale appena il 10% del totale. In pratica, per
l'Italia sono 6,5 miliardi: una cifra assolutamente ridicola. Al di là di questa una tantum, la approvazione
del PNRR servirà a dare il via libera per spendere la cifra concordata,
praticamente nell'ambito del bilancio per il 2022.
Solo allora lo Stato potrà procedere alle spese concordate,
ma dovrà rendicontarle e fare richiesta di pagamento da parte di Bruxelles
delle somme usate "in conto
Recovery Fund": la valutazione per la erogazione del rimborso sarà
effettuata sempre dalla Commissione, ma sarà subordinata al raggiungimento dei
"traguardi intermedi e finali in termini di risultati".
Spendere i soldi non basta: bisogna dimostrare che gli
obiettivi macroeconomici ed i risultati socioeconomici che erano stati promessi
sono stati effettivamente raggiunti.
Prima di decidere, la Commissione deve infatti attendere il
vaglio di una sorta di Troika, cui spetta valutare il raggiungimento o meno dei
traguardi concordati: la Commissione europea
dovrà tenere conto del parere del "Comitato economico e finanziario", un organo
consultivo istituito per promuovere il coordinamento delle politiche necessarie
al funzionamento del mercato interno, formato da alti funzionari delle
amministrazioni nazionali e delle banche centrali, della Banca centrale europea
e della Commissione europea. Esce di scena il FMI, ma al suo posto
subentrano altri "esperti".
Non basta, perché a questo punto è possibile la attivazione
del cosiddetto "freno d'emergenza": ogni
Stato membro può opporsi alla valutazione positiva della Commissione, e quindi al
pagamento delle somme richieste dallo Stato che ha effettuato le spese,
"per gravi scostamenti rispetto all'adempimento soddisfacente dei
pertinenti target". Può richiedere, entro tre giorni dalla proposta della
Commissione, che la questione venga deferita al Consiglio europeo: nessuna
decisione riguardo i pagamenti potrà essere assunta finché il Consiglio europeo
non abbia discusso la questione "in maniera esaustiva".
Visto che i target sono estremamente complessi, e che
riguardano una infinità di questioni, si rimane appesi a questo ulteriore
giudizio: i Paesi Frugali ne hanno fatto una questione di principio. Chi si
illudeva di avere risorse europee da spendere subito ed in libertà, si dovrà
ricredere.
Si va oltre la robotizzazione: si mette in atto una vera e
propria militarizzazione burocratica e politica, con gli Stati che devono
marciare inquadrati, al passo dell'Oca.
Il
Recovery Fund inchioda gli Stati ai tavoli burocratici, con vincoli di ogni
genere e procedure defatiganti.
A
Bruxelles piace il passo dell'Oca