L’inizio del nuovo anno ha visto protagonista, come primo
movimento politico, la Corte Costituzionale.
La Consulta si è espressa sull’ammissibilità dei referendum inerenti il lavoro,
proposti dalla CGIL, e sulla legittimità costituzionale della legge elettorale
Italicum. A dire il vero già nel 2016 i giudici costituzionali avevano cassato
il decreto Madia nella parte riguardante la gestione di servizi pubblici a
rilevanza economica. Tutti interventi volti a smontare norme licenziate dal
governo Renzi, il che la dice lunga sull’effettiva capacità di questo esecutivo
e dei suoi riformatori.
In realtà fra le macerie di tali immondizie rimane in piedi forse la
legge più odiosa, quella che all’interno del jobs act elimina le tutele dell’art.18 . Infatti il quesito proposto dalla
CGIL, che chiedeva l’abrogazione della norma
funzionale alla sostituzione della reintegra
di un lavoratore licenziato ingiustamente con un semplice indennizzo economico
da parte dell’azienda, non è stato ammesso alla prova referendaria. Tale pronunciamento della Corte,
emesso l’11 gennaio, è stato oggetto di contestazioni.
I giudici costituzionali sono stati accusati di aver
fatto politica, insomma si è sollevato un vespaio di polemiche.
Ebbene
l’altro ieri la Consulta ha emesso e depositato le sentenze sulle motivazioni
secondo le quali non ha promosso il referendum sull’art.18, a differenza delle altre due materie
(voucher e responsabilità negli
appalti) a cui è stata concessa l’ammissibilità.
In relazione alla bocciatura del quesito sull’art.18 la Corte ha di fatto bacchettato la CGIL perché, nel proporre l’abrogazione dell’interdizione
alla reintegra, è stata troppo morbida.
Nelle motivazioni si sostiene che “l’allargamento a tutti i settori del limite dei cinque lavoratori per
applicare le tutele reali in caso di licenziamento illegittimo (la
reintegra in luogo del risarcimento monetario ndr) avrebbe indotto un assetto normativo sostanzialmente nuovo”. La CGIL ,cioè, avrebbe dovuto chiedere “l’abrogazione
integrale del limite occupazionale” dunque
il conseguente ripristino dell’art.18 a tutte le unità produttive senza alcun limite sul numero di addetti
impiegati . Infatti, sostiene la Corte, “laddove
non intenda abrogare l’opzione di base ma articolarla in modo differente, il
quesito assume un tratto propositivo che ne determina l’inammissibilità”. Ad esempio, il referendum
proposto da Rifondazione nel 2003, che estendeva la protezione dell’art.18 a
tutti i lavoratori, fu ammesso perché intendeva abrogare nel suo complesso l’intera
legge vigente.
Rimanendo nell’ambito dei
tre quesiti posti dalla CGIL, quello sui
voucher è stato ammesso proprio perché se ne chiede la completa
abrogazione. Il che rende anche
difficile, se non impossibile, un intervento legislativo teso a scongiurare il
referendum. Infatti qualsiasi modifica finalizzata a rimodulare la normativa sui voucher sarebbe inutile, in quanto se ne chiede
l’abrogazione totale.
Dunque la Corte
Costituzionale è più estremista della CGIL?
E’un giudizio suggestivo. Di certo salta agli occhi il pressapochismo
con cui è stato redatto il quesito sull’art. 18. E legittimo sale il dubbio se
tale operazione non entri nel novero del modus operandi che caratterizza la
CGIL, ma anche gli altri sindacati confederali. Cioè la consuetudine riformista per cui si fa finta di fare gli interessi dei
lavoratori, mettendo in campo atti dirompenti solo sulla carta. In realtà la finalità vera di certe azioni è quella di mantenere la pace sociale,
tenere buoni i lavoratori scornati dall’ennesimo sopruso escogitato dal
finanz-capitalismo. Nello specifico, per
scongiurare la protesta di piazza contro il jobs act, si è
proposta la più quieta via referendaria ad eliminazione del danno. Risultato: il jobs act è passato nella totale
narcolessia sociale e il referendum abrogativo non è stato ammesso. Missione
compiuta.