Nella notte fra domenica e lunedì scorso si è spento il
trombonista Dino Piana, una colonna del jazz italiano. Per ricordarlo, pubblichiamo
un’intervista che gli fece Enrico Rava in occasione dell’uscita del disco, che
li vedeva protagonista insieme “Al gir del bughi”. L’articolo a cura di Roberto
Peciola uscì nell’aprile del 2021 su “Alias”
l’inserto culturale de’” il manifesto”
INCONTRI/UNA CONVERSAZIONE TRA IL TROMBONISTA PIEMONTESE E ENRICO RAVA.
«Al gir dal bughi» è un nuovo disco e l’inizio di una lunga
storia. Ripensando a Mingus
Dino Piana, novantuno anni portati alla grande, con una
voglia infinita di fare quello che sa fare, suonare quel trombone che lo
accompagna fin dalla adolescenza. Una passione che lo ha portato a registrare
ancora un disco, Al gir dal bughi, un lavoro fortemente voluto e spinto
dall’amico di sempre, Enrico Rava, di «appena» dieci anni più giovane, e dal
figlio Franco. Per farci raccontare l’album, ma soprattutto una vita «in jazz»,
ci siamo affidati a una conversazione – rigorosamente «a distanza» – proprio
tra i due grandi «vecchi» del jazz nostrano, eccone un resoconto.
Enrico Rava: Cominciamo a parlare del titolo del
disco, la gente si chiede cosa cavolo voglia dire Al gir dal bughi.
Dino Piana: È una storia che conosci bene, parliamo
di 62 anni fa. Mi trovavo a Torino e mio fratello mi disse che aveva sentito
che da qualche parte stavano suonando jazz, e che sarei dovuto andare a farmi
sentire. Gli risposi che non se ne parlava, figurati, non avevo neanche la
custodia per il trombone, che faccio, me lo metto sotto il braccio? Alla fine
mi convinse e una domenica mattina andammo, mi tremavano le gambe. Quando siamo
entrati tu mi sei venuto incontro dicendomi, «Ah, un trombone a pistone, come
Bob Brookmeier!». Capirai, io non sapevo neanche chi fosse Brookmeier e sono
andato in palla, poi quando mi proponesti di suonare un blues avrei voluto
morire, non conoscevo nulla, non lo avevo mai suonato e ti chiesi cosa fosse il
blues. Tu ti girasti verso il pianista, Maurizio Lama, con uno sguardo come a
dire «eccolo qua, abbiamo il pollo!». Lama mi fece sentire qualcosa e io dissi:
«Ah, ma è al gir del bughi», è il giro del boogie-boogie! Iniziammo a suonare e
io feci un solo, poi due, poi tre e quando finii mi avete abbracciato. Da
allora tutte le domeniche mattina venivi a prendermi a casa e conoscesti Franco
che allora aveva un anno o due, ricordi che sulla culla c’era una trombetta?
E.R.: Mi fa sorridere il fatto che dopo sessant’anni
lo chiami ancora boogie boogie, è boogie-woogie!
D.P.: Sì, ma noi lo chiamavamo booggie boogie…
E.R.: Sai perché ti abbracciammo? Perché noi eravamo
dei maldestri dilettanti, io avevo vent’anni e avevo comprato una tromba da un
paio d’anni, Maurizio suonava «abbastanza» bene il piano e tu sei arrivato
senza sapere nulla, non avevi mai suonato il jazz ma facesti un solo
incredibile. A farti conoscere il jazz però ci pensò Luisa, tua moglie, con la
quale hai passato tutta la vita…
D.P.: Sì, allora pensavo di suonare jazz, ma era solo
musica da ballo. Un giorno Luisa mi disse che se fossi andato da lei, una sera
mi avrebbe fatto ascoltare una radio tedesca che trasmetteva musica per le
truppe Usa in Germania. Andai, quella sera c’erano Dizzy Gillespie e Charlie
Parker, era una cosa da matti… «Ma cos’è ’sta roba?», le dissi, e lei: «Questo
è il jazz». Ogni volta che trasmettevano andavo da lei e così cominciai a
provare quelle cose, suonavo free per conto mio. Questo fu il mio primo
incontro con il vero jazz.
E.R.: Poco tempo dopo quel nostro incontro
partecipasti con un gruppo che credo si chiamasse Quintetto o Sestetto di
Torino, alla Coppa del Jazz, un concorso che faceva la Rai in quegli anni, e
vincesti come rivelazione. Subito dopo ti volevano tutti i grandi musicisti
europei…
D.P.: Non so nemmeno io come andò. Dopo la Coppa del
Jazz venni contattato da Romano Mussolini che mi offriva di entrare nel gruppo
che avrebbe dovuto accompagnare Chet Baker alla Bussola. Anche lì pensai di non
andare, Baker era troppo per me, ma Luisa mi convinse dicendomi che era
un’occasione unica, a cui non potevo rinunciare. Accettai e mi ritrovai al
fianco di quello che consideravo un dio, lo amavo e lo amo tutt’ora perché…
beh, lo sai perché. Feci tutta la stagione con lui e imparai moltissimo, ma
all’inizio fu dura. Quando ci siamo trovati al pomeriggio per stilare una
scaletta, per conoscerci, ci accordammo per partire con un blues, poi la sera,
locale pieno, lui arrivò in ritardo, trafelato, prese la tromba, si girò verso
di noi e disse: «Tune up». Rimasi come uno stoccafisso, non conoscevo quel
brano, non lo avevo mai sentito, e decisi di non suonare… avrà fatto sei chorus
uno più bello dell’altro e poi mi fa: «You don’t play?», e io «No, I don’t
know!» Quella sera, fu tremenda, ma poi le cose si sono aggiustate e siamo
diventati «quasi» amici, perché era amico di tutti e di nessuno, fu una grande
esperienza. Da lì in poi ho suonato con moltissimi musicisti americani e non
solo, Mingus, Gerry Mulligan, Thad Jones, Paco De Lucia, Maynard Ferguson, Lee
Konitz, troppi per citarli tutti… Ultimamente ho fatto delle bellissime cose
con Carla Bley e Kenny Wheeler, roba d’avanguardia con cui non mi ero mai confrontato.
E.R.: Ma la storia del tuo ingresso nella orchestra
della Rai? Come hai fatto, senza neanche saper leggere la musica?
D.P.: Fu una cosa particolare. Gorni Kramer venne a
sentire Chet al Bussolotto, alla fine del concerto mi si avvicinò e mi disse:
«Bravo, suoni bene, mi piace. Io a novembre o dicembre dovrei fare una
trasmissione in Rai e mi serve un trombone come te, che improvvisi. Ho un
trombone bravissimo in orchestra, Mario Pezzotta, però uno come te mi
piacerebbe”. Io avevo bisogno di un lavoro fisso, diventai rosso e gli dissi,
con fatica: «Maestro, ma io non leggo la musica, come faccio a suonare in
un’orchestra?». «Ma come non leggi la musica… Ma gli accordi che suonavi?»,
«Non lo so cosa suono», «Guarda, non mi importa, parlo io con Pezzotta e vedrai
che ti aiuterà». Pensavo di non accettare ma anche quella volta a spronarmi fu
Luisa, e così mi ritrovai a studiare con il maestro Pezzotta che all’inizio era
un po’ perplesso ma pensava di riuscire a farmi suonare «a prima vista» se gli
fossi stato vicino, ma non è mai successo!
Interviene Franco Piana: Ma poi con Mingus…
D.P.: Con Mingus è un’altra storia, Enrico, vuoi che
te la racconti?
E.R.: E certo, siamo qua per questo!
D.P.: Ricordo che ricevetti una telefonata in cui mi
dissero che c’era da fare una cosa con il più grande contrabbassista del mondo.
Io per scherzo dissi, «Chi, Charlie Mingus?» «Sì, proprio lui!» «Ah, ok, non
vengo!», figurati sapevo che era uno molto esigente e con un carattere
particolare, e se un musicista non gli andava a genio lo mandava a quel paese.
E lì di nuovo subentrò Luisa a spingermi ad andare, e io non volevo, conoscevo
i dischi di Mingus e sapevo che il suo trombonista era fenomenale, e io cosa
potevo andare a fare con il mio strumento a pistone, e invece… Arrivò con un
cappello nero e il sigaro, metteva soggezione. Cominciamo a registrare e
durante il brano mi fa cenno di andare, presi la plancia al volo e mi lasciò
spazio; alla fine mi fece i complimenti, fu un’altra grande soddisfazione.
E.R.: Poiché siamo partiti da Al gir dal bughi, che è
l’inizio della tua storia, dimmi qualcosa di questo disco, sei contento?
D.P.: Molto, perché non credevo di fare ancora un
disco così, col mio nome, voi mi avete spinto a farlo e sono molto contento
perché non è un disco combinato, Ci siamo ritrovati a registrare senza aver
preparato nulla, siamo andati a ruota libera, col cuore. Ecco, è un disco fatto
col cuore, un disco di jazz, se vuoi tradizionale, ma con tanta anima. Grazie a
te Enrico e a Franco che mi tiene sempre sulla corda. Io suono tutti i giorni,
se non suono sto male, è importante per me.
E.R.: Anch’io! Suono tutti i giorni, sono felice se
sento che il labbro va, scontento se non va, mi sento in colpa se sto un giorno
senza suonare, e non ci crede nessuno. Ma come? Mi dicono, tu alla tua età… Sì,
lo faccio perché è quello che mi tiene in vita…
D.P.: Esatto, lo facciamo per noi stessi. Mica penso
di mettermi a fare concerti a 91 anni – «li faremo», interviene Rava -, vabbè,
speriamo. Io ho bisogno di farlo, di sentire il mio suono, perché viene da
dentro, dall’anima. A volte suono anche brani vecchi, cose che mi ricordano
Luisa, vado col pensiero e torno in quella sala da ballo, per esempio.
E.R.: Dino, è stato un piacere, spero che tu abbia
detto tutto ciò che volevi, ma se vuoi dire qualcos’altro…
D.P.: No, voglio ringraziarti, è stata una bella
cosa, grazie.
E.R.: Sono io che ringrazio te, ma tanto ci sentiamo
presto.