Luciano Granieri
Nel luglio del 1984 il tempo sulla Riviera Adriatica si mostrava abbastanza incerto. In particolare, durante la rassegna “Pescara Jazz”, i concerti di giovedì 19 si tennero a singhiozzo per il continuo susseguirsi di temporali . Il set di Chick Corea, ad esempio, fu spostato, dal sito usuale del Parco le Naiadi, ad un locale di Pescara di cui non ricordo il nome.
Ricordo che si poteva entrare gratuitamente solo se si era in possesso dell'abbonamento per l’intera rassegna pescarese, ed era obbligatoria la consumazione, ovviamente a pagamento. Un piatto di penne all’arrabbiata, arrabbiate solo nel prezzo. Il set di Corea, in piano solo, fu molto bello. Ma l’impressione fu come se il pianista si risparmiasse, probabilmente contrariato dal fatto di aver dovuto cambiare all’improvviso l’ambientazione del concerto. Preferì esaurire il suo, pur stimolante e straordinario compito, nel più breve tempo possibile, per poi dedicarsi ai fan e firmare autografi (uno lo conservo anch’io).
Il bello sarebbe venuto dopo. Finita la sbornia “Coreana” ecco presentarsi sul palco il trio del tenor-sassofonista Steve Grossman. Un formazione particolare: con lo stesso Grossman, il potente contrabbassista Juni Booth e lo swingante batterista Joe Chambers. Il set iniziò senza tante presentazioni ed il trio cominciò a sciorinare una serie di standard la cui esecuzione lasciò esterrefatti: da “Four” a “Star Eyes”, da “Body and Soul” a “Out of Nowhere” , ed altri ancora.
Tutti brani caratterizzati da una solida impalcatura armonico-melodica, veramente difficili da rendere senza strumenti armonicamente importanti come il pianoforte o la chitarra. Di solito certe evasioni da una griglia armonicamente rigida partono da forme in cui l’armonia si basa su pochi accordi, due al massimo tre, vedi ad esempio “So What” di Miles Davis, oppure è soppiantata dalla preminenza di melodie incrociate, contrappuntistiche, è il caso dei quartetti di Gerry Mulligan, con Chet Baker prima, e con il trombonista Bob Brookmeyer poi, (una formazione con due fiati, contrabbasso e batteria), o ancora essa è contraddistinta da una sequenza di scale e non di accordi.
Tutti gli standard, eseguiti da Steve in quel concerto, hanno una solida struttura armonica basata su una successione di accordi definita che il sassofonista, quella sera, utilizzò in modo mirabile e originale, non facendo rimpiangere la mancanza di uno strumento, come il piano o la chitarra, fondamentali proprio per suonare quegli accordi.
Da un lato, grazie alla sapiente collaborazione di Booth e Chambers, la connessione con l’armonia non veniva mai meno, dall’altro la struttura melodica dell’improvvisazione risultava più libera, piena di fughe in avanti e sperimentazioni inaspettate. Si ebbe la sensazione, quella sera, di trovarsi davanti all’inizio di una nuova era per l’esecuzioni senza pianoforte. Una sperimentazione sviluppata da un vero e proprio capo scuola come è da ritenersi Steve Grossman.
Parte di quel materiale finì su due dischi incisi alla fine di luglio dello stesso anno negli studi milanesi “Studio 7”per la Red Record. Si tratta di “Way out East” vol.1 e vol.2 . Acquistai subito il vol. 1 non appena uscì, impressionato dai ricordi di quel concerto.
Oggi, a pochi giorni dalla morte di Steve Grossman, l’ho ritirato fuori dalla pila dei miei dischi di jazz l'ho rigirato fra le mani emozionato, profondamente triste per la morte di un caposcuola, di un musicista dall’immensa orginalità, che, per due ore, o poco più, catturò direttamente la mia sfera emotiva ed estetica coinvolgendola totalmente. Grazie Steve e che la terra ti sia lieve.
P.S. Di seguito una definizione di “Jazz” data da Steve Grossman in una intervista realizzata dal mensile “Musica Jazz”, una definizione in cui mi riconosco pienamente:
Quella serata del luglio 1984 Steve ci
riuscì pienamente.
Di seguito "Four" tratto da Way Out East vol.1