Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

mercoledì 30 gennaio 2019

Antonio Sanchez, against muro.

Luciano Granieri




In questi tempo oscuri  in cui la parola immigrato è associata ad invasore, in cui si perpetua una  difesa identitaria  incentrata sulla razza, sulle scelte sessuali, sul censo e sull’integralismo religioso, come pensiate possa reagire il mondo del jazz? Quel mondo che si fonda sull’abbattimento di confini culturali sociali e politici , quell’universo che ha fatto, e   fa,  della comunicazione musicale un linguaggio   universale inteso da tutti i musicisti del mondo, risponde  ignorando totalmente muri e barriere   elementi del tutto estranei al lessico jazzistico.

Non nette divisioni ma ibridazioni.  Questa è la principale caratteristica di una musica che, pur investita nel corso della sua storia da  rigurgiti razzisti e discriminatori, ha sempre, non senza difficoltà, imposto il proprio carattere inderogabile di contaminazione, cercando in linguaggi musicali diversi fonte d’ispirazione e creatività.  

Il tema dell’invasione da parte di gente inerme è tristemente diffuso nella parte più gretta della popolazione mondiale che,badate bene, non è la maggioranza. E’ solo quella che strilla di più.  La maggior parte di coloro che sono e resteranno umani non strepitano, ma usano anche le arti per farsi sentire. E’ forse una modalità poco incisiva oggi, ma notevolmente più potente e destinata ad imporsi anche nella barbarie  covata nella solitudine di soggetti sedotti e abbandonati da un vorace liberismo che li ha resi  soli e rancorosi.

Un esempio di  ambasciatore culturale che usa l’arte, in questo caso la musica jazz, per imporre la sua umanità è il batterista Antonio Sanchez. Un artista che purtroppo soffre più di altri la presenza dei muri, in particolare di un muro, quello che divide il Messico dagli Stati Uniti. Sanchez infatti è nato nel 1971 proprio a Città del Messico. Nel 1990   riesce ad arrivare negli Stati Uniti nel suo paese si era già diplomato al conservatorio. Un privilegiato?  Forse, ma il  suo talento dopo averlo traghettato  verso Boston nel 1997 gli consente di vincere diverse borse di studio come il Memorial Scolarship Buddy Rich ed il premio  Zildjian.  A Pat Methney non interessa che Antonio sia del Messico, è un talento, uno straordinario batterista e tanto basta per farlo entrare stabilmente nel suo gruppo. Ma neanche a Chic Corea, a Dee Dee Bridgwater, a Charlie Haden o a tanti altri jazzisti  che hanno collaborato e collaborano con lui interessa molto che Sanchez sia messicano.  E' un musicista con cui diventa stimolante ed appagante suonare, questo solo  è importante.

Nessun muro può fermare l’ibridazione con il  talento, ma anche la semplice condivisione di vite, storie umane, nascita di amicizie. Infatti Antonio Sanchez quel muro fra Stati Uniti e Messico  non lo digerisce proprio . Il gruppo di cui oggi è leader si chiama “Migration band”. Quando il quartetto si esibisce, fra un brano e l’altro,  il batterista non lesina disprezzo per la politica repressiva e gretta dell’amminstrazione Trump. Fa politica? Certamente perché divisione e segregazione, non solo non fanno parte del jazz, ma non fanno parte neanche di rapporti sociali umani. Per  questo suonare, dipingere, scrivere poesie, significa fare politica combattere la guerra contro la barbarie con le sole armi dell’arte.  E vi pare poco!

Good Vibrations


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