Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 27 novembre 2010

Quell’Italia vera della partitella.

di Massimo Raffaeli.  (da il manifesto del 26 novembre)



L’intenso rapporto tra Pier Paolo Pasolini e il calcio, atto di “estrema resistenza” la centro di un convegno Casarsa, sui campi dove il poeta tirò i primi calci a scoprì l’amore nel quale vedeva l’utopia della pienezza umanistica 

“Fermate, a Pa’, dà du’ carci co' nnoi” E’ un richiamo ancestrale quello che lanciano a Pier Paolo Pasolini alcuni ragazzi della borgata dai nomi inconfondibili. Giorgio, Giannetto, Carlo, il Moro.  La borgata è il Trullo, mentre i  versi ( poi nella raccolta “Poesia in forma rosa”, Garzanti 1964) portano la data del 6 marzo 1963 come fossero note di diario. Pasolini ha compiuto il giorno prima  quarantuno anni , vive a Roma da tredici, è non solo un poeta e un narratore riconosciuto dalla èlite, ma ormai un regista famoso (reduce per altro da due capolavori “Accatone” e “La ricotta” ) così come un uomo pubblico decisamente controverso, sospetto a sinistra  per la sua omosessualità e per il marxismo eterodosso, linciato dalla destra per i medesimi motivi, comunque pluriprocessato dentro e fuori dalle aule giudiziarie dalla stessa società che il suo genio di antrolplogo prende a leggere nei termini dello Sviluppo senza Progresso, illusa dal boom economico che tuttavia la stravolge nei  modi sia del Genocidio delle antiche culture popolari e particolaristiche sia dell’Omologazione al consumismo neocapitalista: dieci anni dopo, negli “Scritti Corsari”, nelle pagine clandestine di “Petrolio”  e nel terrificante testamento di “Salò” , darà ad un simile contesto il nome glaciale di Universo Orrendo. Quei ragazzi che lo invitano a giocare rinnovando una cara consuetudine , non sono solamente i testimoni fisici di un mondo popolare presto liquidato o retrocesso a preistoria ma sono i complici del gioco in cui resiste agli occhi del poeta la nostalgia o l’utopia della pienezza umanistica, ovvero la conciliazione naturale di anima e corpo, quasi una laica eucaristia che venga spartita tirando due calci a un pallone. Chi ha raccolto meritoriamente le pagine che lo scrittore ha dedicato al calcio (cioè Valerio Piccioni)  in “Quando gioca Pasolini, Calci, corse e parole di un poeta” Limina 1966) scandisce in tre episodi e in tre fisionomie gli sviluppi della sua passione: prima c'è il piccolo tifoso del Bologna anni trenta (lo squadrone pluriscudettato di Schiavo e Biavati, Ceresoli e Andreolo), colui che gioca a calcio ogni giorno e per ore sui prati di Caprara, un’ala destra d’altri tempi, minuta e velocissima, che gli amici battezzano “Stukas” : poi il ventenne del Friuli materno, in divisa regolamentare, sui terreni di Casarsa o San Giovanni: infine il quarantenne e cinquantenne che decine di foto ritraggono nei campetti della periferia romana, con indosso la maglia del Bologna, per una partitella fra amici o nelle dispute tra cinematografari/giornalisti/cantanti dove pare prodigasse l’impegno e persino la tigna acrimoniosa dell’antica passione (come attesta in più luoghi “l’Album Pasolini”  a cura di Mario Desiati, Oscar Mondadori 2005). Non soltanto Pasolini legge il gioco da vero intenditore ( un suo celebre articolo utilizza, infatti, la semiologia di Roland Barthes per fornire una grammatica della prosa e della poesia calcistica) ma ritiene paradossalmente la partita come l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, l’unico evento capace di commemorare la tragedia greca e dunque di investire la totalità della Polis. E’ probabile che nella plasticità del gioco, nella trama armoniosa di un’azione , nella semplice bellezza di un gol, egli individuasse da un lato la completezza delle forma d’arte e dall’altro, specialmente, un gesto di perfezione etimologica, in grado di sottrarsi al principio di prestazione e agli automatismi della mercificazione: è quanto Bataille aveva definito la “dèpense” l’atto di nudo spreco o di grazia allo stato puro. Che giocare al calcio fosse per Pasolini un atto di estrema resistenza umanistica lo testimonia un romanzo tra i più singolari, si dica pure tra i più appassionati, dello scorso decennio, “Futbol bailado” di Alberto Garlini (Sironi 2004) , un testo di quasi cinquecento pagine la cui intramatura complessa, sorretta da un’isoirazione magnanima, è solo relativamente ipotecata dalle didascalie d’epoca. L’incipit è la famosa partita (l’ultima di Pasolini) che disputarono a Parma nel marzo del 75’ la troupe di “Salò” e quella di “Novecento” capitanata da Bernardo Bertolucci: qui, alla maniera di una docufiction di impianto polifonico, ma senza concedere nulla alle lusinghe o alle facili astuzie del cosiddetto postmoderno, si diramano due differenti romanzi di formazione, i quali si intrecciano sia alla cadenza frenetica, ultimativa e/o distruttiva, che scandisce gli ultimi mesi di vita del poeta, sia ai passaggi di fase più cruciali della storia italiana recente: l’uno è l’apprendistato di un campione, Francesco, che viene progressivamente meno agli obblighi della carriera per ritrovarsi a immolarsi nella gratuità del gioco  primordiale, perciò un “futbol” che simula la danza e il volo degli uccelli, che guadagna la cadenza di una poesia e non chiede contraccambio che non sia un pegno d’affetto o un’offerta d’amore; l’altro è il bilancio al presente di chi per caso si trovò a giocare, giovanissimo, la partita di Parma divenendo in seguito l’allievo prediletto di Francesco: il suo nome è Alberto, allude ad un profilo chiaramente autobiografico e segnala, nello stesso tempo,  la funzione di un doppio testimone per cui “Pasolini” non può essere un’icona o un accredito culturale ma un riferimento esistenzialetrasformarsi uno sterro fra i palazzi in costruzione nel decorso allegorico della sua stessa vita, finalmente circondato dai ragazzi che amava, dagli antichi maestri e da tutti gli amici scrittori. Infatti aveva aggiunto nella clausola, regalandosi un attimo di necessaria retorica: “Le grida della quieta partitella, la muta primavera, non è questa la vera Italia fuori dalle tenebre?”

 L’azione del gol dell’ 1 a 2  nella vittoriosa partita dell Roma contro il Bayern Monaco-che vede una travolgente azione di Jeremy Menez, prodigio Francese nato  e cresciuto nei sobborghi meridionali di Parigi, e la  finalizzazione in rete del cross di quest’ultimo da parte di Marco Borriello -   mostra la plasticità del gioco, la  trama armoniosa di un’azione , la  semplice bellezza di un gol. Elementi  in cui Pasolini individua,  da un lato la completezza delle forma d’arte e dall’altro, un gesto di perfezione etimologica.


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