Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

lunedì 28 maggio 2012

Le vere ragioni della crescita del debito pubblico

Alberto Madoglio (articolo pubblicato su Progetto Comunista di maggio-giugno 2012)




A partire dal maggio 2010, quando una improvvisa quanto durissima crisi valutaria rischiò di far saltare le finanze pubbliche europee e con esse tutto il sistema della moneta comune del Vecchio Continente (l’euro), la discussione sulla natura dei debiti pubblici dei vari Paesi ha assunto un ruolo centrale nel dibattito politico ed economico a livello globale.

La crescita esponenziale dei debiti sovrani, sia in termini assoluti che relativi (in rapporto al Pil), e i problemi che esso crea per il futuro dell’economia mondiale capitalistica sono dati che nessuno può sottovalutare. Tuttavia, assistiamo a un tentativo da parte di governi, padroni e mass media al loro servizio di mascherare le vere cause della sua crescita e di proporre soluzioni socialmente pesantissime, andando a colpire i livelli di vita dei soggetti più sfruttati di una società basata sull’economia di mercato (lavoratori, donne, giovani, immigrati, pensionati, ecc.). In Italia in particolare non passa giorno in cui, per giustificare la distruzione delle poche tutele che il welfare state ormai riserva ai lavoratori, non si utilizzi un sistematico metodo di mistificazione e stravolgimento della realtà. Gli esempi si ripetono con monotonia: il beneficiario di una pensione di invalidità scoperto a giocare a pallone, la finta non vedente sorpresa a guidare, il lavoratore pubblico oggi sessantenne in pensione da trent’anni e via “gossippando”.
Non si può negare che in una moderna società ci siano sacche di spreco e privilegio, il più delle volte utilizzate dalle classi dominanti per guadagnare consenso. Oppure, specialmente nelle fasi di ascesa della lotta di classe nei decenni scorsi, le stesse classi dominanti sono state costrette a fare concessioni per garantirsi ad ogni costo il mantenimento del proprio dominio. Si tratta sempre e comunque di piccole cose, se paragonate agli sprechi, alle truffe e corruzioni varie che sono l’ingrediente indispensabile di ogni società basata sul profitto: per tutti basti il caso delle spese sanitarie, la cui crescita non è dovuta ad un miglioramento dei servizi alle classi popolari, ma ai profitti che lo Stato borghese garantisce alle multinazionali del farmaco, alla sanità privata e via dicendo.


Alcuni dati significativi

D’altronde non bisogna certo essere degli esperti di economia per vedere che non è stata un eccesso di spesa nel welfare la causa principale che ha provocato la crescita del debito pubblico in Italia e nel mondo: crescita che ha riguardato in generale sia Paesi in cui le protezioni previste dallo Stato nei confronti dei lavoratori sono maggiormente sviluppate, sia in quelli in cui sono molto ridotte, e non sempre i primi sono stati quelli in cui il debito è cresciuto di più.  In aggiunta, sono oramai venti anni che assistiamo, in ogni angolo del mondo, a tagli allo stato sociale (pensioni, sanità, trasporti, scuola, ecc.). Risulta quindi difficile sostenere che sia un sistema di pubbliche tutele ridotto ai minimi termini il principale responsabile della situazione che stiamo vivendo.
Fortunatamente, uno studio pubblicato da Roberto Artoni sulla serie storica del debito pubblico italiano dal 1885 al 2001 (Note sul debito pubblico italiano dal 1885 al 2001, pubblicato su www.delpt.unina.it) ci permette di fare piazza pulita una volta per tutte di quelle falsificazioni cui accennavamo sopra. In esso sono indicate quattro fasi di accumulo del debito pubblico nazionale: alla fine del XIX secolo, in occasione dell’esplodere delle spese militari per sostenere la politica imperialista in Africa del Regno d’Italia e dell’inizio della Grande Depressione di quella fine di secolo; al termine della prima guerra mondiale e in coincidenza della crisi economica che scoppiò alla fine di quel conflitto; dalla Grande Depressione del ‘29 fino alla seconda guerra mondiale; infine dal 1994 al 2001 (in realtà fino ad oggi, anche se lo studio si ferma prima).
Quello che si può notare solo dalla serie cronologica, anche senza inoltrarsi nella lettura del testo, è che le crisi del debito del Bel Paese sono intimamente legate alle turbolenze che hanno devastato l’economia mondiale nel corso di un secolo e oltre. E che l’Italia, lungi dall’essere un’economia poco sviluppata e poco legata al mercato mondiale (come una vulgata non solo di destra, ma anche di parte del movimento operaio vuole far credere quando sostiene che il Paese dovrebbe riprendersi in pieno la “propria sovranità” sic!), proprio in quanto paese imperialista, pur se non di primissimo livello, pienamente coinvolto nelle dinamiche economiche globali, è vittima come altri Paesi dei periodici sommovimenti economici e finanziari della società capitalistica.
Per la verità nel testo si sostiene che la creazione, a partire dalla metà degli anni Sessanta, di un sistema di welfare simile a quello di economie più sviluppate ha avuto un ruolo non secondario nella quarta fase di accumulo del debito pubblico. Affermazione parziale e a nostro avviso non del tutto corretta. Se è vero che il welfare state ha un costo, è anche vero che esso, come detto all’inizio, non è una gentile concessione fatta dalle classi dominanti, ma un risultato strappato dai lavoratori con le lotte, il sangue e il sudore ai padroni, che hanno rinunciato a parte dei propri guadagni pur di permettere alla loro classe di mantenere il potere sulla maggioranza della società. E comunque si riconosce che le spese primarie dello Stato (con esclusione di quelle per investimenti di lungo periodo) alla fine degli anni Novanta erano inferiori alla media europea, e che l’aumento della spesa per il debito pubblico era legato all’andamento dei tassi di interesse a livello internazionale.


Quali conclusioni trarre dai dati?

In primis si deve riconoscere che il debito pubblico è frutto dell’economia capitalistica e della sua evoluzione nel corso degli anni. Che la speculazione finanziaria posta in essere da banche, assicurazioni e investitori internazionali (in particolare nei periodi di recessione, per cercare di ovviare alla caduta dei profitti nel settore dell’economia “reale”) si arricchisce anche grazie al debito pubblico (basti pensare agli enormi guadagni che i maggiori istituti bancari fanno comprando e vendendo titoli di Stato) e allo stesso tempo ne favorisce la crescita. Che sono le enormi spese militari e il mantenimento degli apparati repressivi dell’imperialismo (si pensi ad esempio alla portaerei Cavour che costa 100 mila euro al giorno anche quando non è in missione; o alle centinaia di migliaia di poliziotti, carabinieri, guardie di finanza, utilizzati non per arrestare qualche mafioso ma per reprime le lotte degli operai dell’Alcoa, dei pastori sardi, dei lavoratori dell’Esselunga di Pioltello, dei No Tav ecc.), o le migliaia di miliardi di incentivi e agevolazioni che lo Stato ha fatto ai grandi gruppi industriali nazionali, Fiat in testa, le vere cause della crescita abnorme del debito pubblico.
Per queste ragioni una campagna per il non pagamento del debito non può esimersi dal mettere all’ordine del giorno una lotta contro il sistema capitalistico nel suo complesso. Credere che un’equa ripartizione dei sacrifici possa essere possibile in un sistema fondato sul profitto, che i padroni e i loro governi possano essersi persuasi dal non far pagare la crisi alle classi subalterne - o dal limitare gli eccessi della speculazione - è solo una pericolosa illusione.
La storia dell’economia mondiale dalla fine del XIX secolo ad oggi ci dimostra che crisi economiche, finanziarie e dei bilanci degli Stati non sono dovute a mere casualità ma sono il risultato necessario, per quanto drammatico, del capitalismo. Perciò la Lega Internazionale dei Lavoratori, di cui il Pdac fa parte, ha deciso di porre all’ordine del giorno nella sua campagna contro il pagamento del debito la lotta per la conquista del potere da parte dei lavoratori, contro ogni illusione riformista o gradualista. Non una generica Europa Sociale, ma solo un grande movimento rivoluzionario continentale che, partendo dalla resistenza agli attacchi del capitale contro le masse popolari, porti all’esproprio della borghesia e alla creazione di un governo dei lavoratori per i lavoratori, potrà mettere la parola fine alle crisi e alle devastazioni sociali che colpiscono il continente. All’Europa di Maastricht, di Schenghen, della Bce e del profitto noi rispondiamo rivendicando la creazione degli Stati Socialisti d’Europa.



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