(Pietro
Secchia
-
Botte
-
in
“Rivista storica del socialismo”
n.
22
maggio-agosto 1964)
Mancano
una decina di giorni al 25
Aprile, festa della liberazione dal nazifascismo. Viste
le facezie sentite dai dirigenti governativi, temo altre
dichiarazioni fuori luogo in vista della ricorrenza.
Ma
la presenza al governo di forze che si richiamano al fascismo, in
modo più o meno velato, non è un caso. E’ il frutto di
mancanze, sottovalutazioni, quando non convenienze a fornire letture
improprie, incomplete della
Resistenza. Dal
bel libro "La Resistenza accusa 1945 - 1973" delle edizioni
Mazzotta, di Pietro Secchia (dirigente comunista, dirigente
partigiano, dirigente dell'ANPI), propongo
un articolo scritto per il ventennale della Resistenza che vi
consiglio di leggere non solo per la sua immutata attualità, ma
principalmente come chiave per una corretta lettura della Resistenza;
lotta non solo di avanguardie, ma di forze sociali, di uomini e
donne, di operai, contadini e lavoratori, di città e di paesi, che
maturarono una più avanzata coscienza democratica trasformando il
fine della sconfitta del nazifascismo in programma per una società
di pace, libera, uguale e solidale, come poi venne scritto nella
nostra Costituzione. Un
programma che Secchia lamentava non essere ancora attuato nel 1964.
Non poteva sapere, ahimè, che ad oggi, 2023, non solo
è rimasto inattuato, ma sta subendo una tremenda regressione.
Luciano Granieri
Di seguito il testo:
Cari
compagni della “Rivista storica del socialismo”, ho fatto, in
questi giorni, una
scoperta
sensazionale che mi costringe a cospargermi il capo di cenere e a
scusarmi
per
la grave lacuna insita nel mio scritto sulla Fiat nel periodo della
Resistenza, pubblicato nel n. 21 della vostra rivista.
Ignoravo
un grande testo, un’opera veramente monumentale, edita ben sedici
anni or sono a cura dei grandi industriali, che porta nuova
luce
sul possente, decisivo contributo di questa emerita categoria al
successo della
Resistenza.
I
dirigenti dei più grandi monopoli, la Fiat in testa, sono stati
tutti in prima
linea
nella
lotta partigiana,
e
noi non lo sapevamo!
“Un
forte numero di questi uomini, ponendo risolutamente a repentaglio le
proprie
aziende,
i loro averi, a volte e non poche, la loro libertà e la loro vita
hanno completato,
aiutato,
integrato l’azione delle forze clandestine.
In
molti, infiniti casi, l’azione degli industriali a favore della
Resistenza è stata così decisa ed aperta da apparire risolutiva e
determinante.
(Resistenza, Editoriale Italica 1948)”
Non
ci rimane che fare solenne
ammenda
e accingerci a rivedere molti giudizi, a rielaborare profondamente
non soltanto lo studio sulla Fiat, ma tutta la storia delle
Resistenza, poiché ad aver peccato, e
ciò
mi è di sollievo,
siamo
in molti e mi trovo in buona compagnia.
Avevamo,
è vero, un pò tutti nei nostri studi tenuto in considerazione
l’atteggiamento
positivo
e il contributo dato da un certo numeri di piccoli e medi
industriali, alcuni dei
quali
pagarono con la vita il loro amore alla libertà.
Ma
non si tratta di questo.
Ci
eravamo dimenticati dei grandissimi industriali; ancor peggio,
avevamo posto in cattiva
luce
il
loro comportamento ed in genere quello dei gruppi monopolistici.
Molti
di questi grandi capitani d’industria erano dei cospiratori, dei
partigiani e noi lo
ignoravamo.
Essi
hanno armato, finanziato la Resistenza, ridotto al minimo la
produzione, organizzato il sabotaggio e gli scioperi nelle loro
fabbriche, opposto coraggiosamente i loro petti al tentativo tedesco
di deportare gli operai.
Non
c’è direzione di
grande
complesso industriale
che non rivendichi “di
essersi opposta energicamente”
all’invio
delle
masse
lavoratrici
in
Germania;
ognuno
dei
“dirigenti
lottò
sino
alla
fine
con
forza e abilità”
L’errore
nel quale siamo incorsi è veramente imperdonabile.
Gli
operai avviati a migliaia oltre il Brennero, a Mauthausen, a
Buchenwald, negli altri campi della morte, non
dovevano
essere italiani,
forse
erano marziani.
C’è
di più.
“In
molti posti i combattimenti ebbero luogo all’interno degli
stabilimenti o
nelle
immediate vicinanze ed i feriti erano ricoverati nelle infermerie
delle aziende; il reciproco
soccorso,
l’affetto,
l’amor
di
patria era uguale
in
industriali e
partigiani.” Tutte
cose da noi sempre ignorate, e tutte sono documentate fabbrica per
fabbrica,
cantiere
per cantiere.
Non
c’era officina, a cominciare dalla Fiat, che non nascondesse
un
comando
partigiano,
missioni
alleate,
stazioni
radiotrasmittenti
e
riceventi,
depositi
di
armi, servizi informativi, comitati di agitazione.
Veramente
questo era stato da noi
documentato,
ma con una grave omissione di fondo: non avevamo detto che tutto ciò
avveniva
per
iniziativa,
con
il consenso ed il pieno appoggio dei grandi industriali.
Ignoravamo
che “al
mattino del 25 luglio il Sen. Giovanni Agnelli arrivò presto in
ufficio e il suo primo atto fu quello di telegrafare a Badoglio per
salutare a nome di tutta la
Fiat
il ritorno alla libertà e per mettere a disposizione del nuovo
governo l’opera della
Fiat
ed il giornale La Stampa di proprietà della Fiat”.
Ignoravamo
che “il
pomeriggio del
10
settembre alla Fiat si attendeva che da Roma si confermasse chiaro,
risoluto, l’ordine della resistenza militare ai tedeschi.
La
cosa era possibile con l’appoggio del popolo.
Il
direttore generale della Fiat, professor Vittorio Valletta, si
precipitò al comando
militare
ed ebbe con il generale Adami-Rossi un colloquio drammatico: bisogna
opporsi, resistere, combattere, mandare contro le forze germaniche le
nostre forze armate,
sollevare
la popolazione”.
Valletta
si pone
così
alla
testa
dell’insurrezione nazionale,
la
lettura
diventa, di pagina in
pagina, sempre più avvincente. Sono elencate, ad una ad una, tutte
le date in cui,
nei
18 mesi di occupazione, Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta vennero
dai tedeschi
minacciati
d’arresto, chiamati, alcune volte anche di notte, portati in certe
ville dove si
svolgevano
fieri colloqui con i comandi tedeschi.
Fortunatamente
la scamparono sempre,
ma
ogni volta proprio per
un
pelo.
Proseguendo
nella lettura troviamo tutti gli altri, i compagni Donegani, Farina,
Mariotti, Pirelli, Rivetti, i Crespi del Corriere della sera, i
dirigenti della Montecatini, delle
Ferriere
Lombarde, delle Officine Reggiane, dei Cucirini Cantoni Coats,
dell’Isotta Fraschini, delle Officine Falck, della Dalmine, fior
fiore dei patrioti al cento per cento.
Non
manca
nessuno.
E
dire che siamo stati così ingiusti!
Ma
una qualche attenuante ci
deve
essere concessa, perché questi grandi industriali che hanno
provveduto con un
così
grosso e ricco volume a fornirci tutte queste notizie, confessano che
avevano in
passato,
per modestia, taciuto di “ avere
svolto quella rischiosa attività in modo invisibile, quanto verrà
qui esposto”, essi
concludono, “
per
molti apparirà una rivelazione.
Il
tedesco
non bisognava affrontarlo, occorreva aggirarlo.
Si
può dire che tutta la lotta
antitedesca
si
svolse con questa tattica giudiziosa,
specialmente
considerata oggi
“.
E
dire che noi e i nostri comandi partigiani non conoscevano una
tattica così abile.
Eravamo
proprio degli scriteriati, sprovveduti dei principi più elementari
dell’arte militare.
A
parte le amenità, ritengo che il tema meriti di essere ripreso in
modo sereno e pacato.
Anche
quel cumulo di facezie, di bugie, di invenzioni, di dati
affastellati, ma non
tutti
falsi,
ha
il
suo
interesse.
Le
menzogne
sono
anch’esse,
a
modo
loro,
delle
testimonianze;
ci spingono intanto a verificare i dati, ad approfondire la ricerca,
ad esplorare
più
da vicino certi
aspetti
della Resistenza,
trattati
finora
piuttosto
sommariamente.
Recenti
studi hanno affrontato il problema dell’amministrazione tedesca in
Italia e dei
suoi
rapporti con le organizzazioni economiche e industriali; ma nessuno
di noi ha mai
ignorato
che
legami
finanziari
e
quindi
politici
i
grandi
capitalisti
li
hanno
avuti
anche con
gli Alleati, con il CLN,
con certi uomini dell’antifascismo e della Resistenza.
Abbiamo
sempre riconosciuto che, dopo il 25 luglio e specialmente dopo l’8
settembre, i
grandi
industriali andarono mutando il loro atteggiamento, non tanto perché
toccati dalla
grazia divina e convertiti improvvisamente agli ideali
dell’antifascismo e della Resistenza, ma poiché era ormai evidente
la sconfitta del nazismo.
Da
qui la loro cauta
fronda
nei confronti dei tedeschi, della Repubblica di Salò, il loro
doppiogiochismo.
Né
abbiamo
mai taciuto delle influenze che essi riuscirono ad esercitare nella
situazione
(l’attesismo)
ed all’interno stesso dei CLN.
Non
so però se le abbiamo tutte soppesate
ed
adeguatamente valutate anche in rapporto al modo come andarono a
finire le cose.
Problemi
tutti sui quali ancora molto dovremo scavare e che ci potranno
servire a meglio comprendere anche il presente.
Ma
in questo momento siamo in altre faccende affaccendati.
Le
celebrazioni del
ventennale
della Resistenza si susseguono a ritmo serrato: è tutta una
processione di
discorsi,
di inaugurazioni di lapidi, monumenti, tra preci, fiori, musiche,
fanfare e l’elevarsi al vento di inni di gaudio.
Su
questo ventennale della Resistenza, ha osservato Alessandro Galante
Garrone,
sembra
spirare uno zefiro soave; sembra “un’aura
dolce, senza turbamento, avere in
sé”
,
come
diceva il padre Dante,
all’insegna
del
volemose
bene.
Tutti
oggi celebrano la Resistenza, non manca proprio nessuno. L’Italia
ufficiale e
popolare,
laica e cattolica.
persino
i gesuiti di Civiltà Cattolica hanno sentito il bisogno
di
essere presenti. Naturalmente la celebrano a modo loro, aprendo un
editoriale con
le
autorevoli parole pronunciate da Paolo VI per dichiarare che la
ricorrenza è
“per
l’Italia
piena di memorie tragiche e grandi”.
La
celebrano come “ una
lotta fratricida che
ha
lasciato degli strascichi dolorosi nell’animo degli italiani, una
ferita non ancora rimarginata; una guerra civile combattuta con
spaventosa violenza che ha portato le tre
parti
in lotta (partigiani, tedeschi e fascisti) ad efferatezze, ad eccidi,
a rappresaglie e
vendette
terribili “
Il
bene ed il male, il torto e la ragione, l’umanità e la barbarie
stavano naturalmente,
secondo
i reverendi padri, dalle due parti.
Vittime
e carnefici, oppressi ed oppressori
sono
messi
in fascio e accumunati in un solo destino.
Al
coro
s’é
unito
persino
Indro
Montanelli,
che
tutto
giulivo
va
cantando
a
distesa
“che
bellissima
cosa rievocare la Resistenza”.
Non
mancano, è vero, alcuni brontoloni, ai quali l’amico Parri
paternamente ricorda
che
“ l’ufficialità,
spesso refrigerante, l’abbiamo voluta noi, perché in questo paese
dalla memoria così breve, una prima garanzia contro i dietrofront la
dà, e questo passaporto occorre per arrivare alla scuola.
Io
mi sono sinceramente rallegrato”, continua
Maurizio,
“ quando
ho sentito uomini di governo, lontani spesso dalle nostre esperienze,
onorare
i
fatti
della
Liberazione
con
lo
stesso
accento
di
chi
ha
combattuto
per
essa.
Ed
hanno torto i compagni brontoloni, desiderosi ed insieme diffidenti
di quanto
sa
di ufficiale”.
Appartengo
anch’io, modestamente, alla schiera dei celebratori ed al tempo
stesso
dei
brontoloni.
Non
c’é domenica e spesso anche sabato che non mi ritrovi in qualche
piazza
o teatro a commemorare la Resistenza assieme a uomini che hanno
combattuto
per
essa,
o
ad
altri
che,
per
usare
il
diplomatico
eufemismo
suggerito
da
Parri,
furono
in
quegli anni “lontani
dalle nostre esperienze” di
ciò non posso anch’io che essere lieto.
Altro
è il motivo del brontolio.
In
troppe manifestazioni ufficiali la Resistenza è celebrata soltanto
da uomini che furono lontani dalle nostre, ed assai vicini, ad altre
esperienze, per cui ne viene fuori la celebrazione di una Resistenza
che non fu certo la nostra né
quella
di Maurizio.
Non
è l’ufficialità, non sono i nuovi cantori della Resistenza
a
dare fastidio.
Che
siano
uomini di governo ed alte autorità dello Stato a celebrarla può
essere elemento
positivo
e contribuire a farla penetrare negli studi, nelle scuole e nelle
aule magne.
Purché
celebrino la Resistenza quale essa fu, con i suoi ideali ed il suo
programma e
non
una sorta di mito o di divinità fatta ad immagine e somiglianza
dell’odierno governo di centro-sinistra
più
che
non
a
quello
che
stava
alla
testa
della
Liberazione
nazionale:
il
CLN.
E’
vero che oggi sta sugli altari la teoria del minor male, del “meglio
accontentarci di
poco”,
“da cosa nasce cosa”, “meglio l’uovo oggi che la gallina
domani”.
E
sia purché,
come
diceva
Antonio
Gramsci,
non
si tratti di un uovo di pidocchio.
Ciò
di cui non pochi brontolano, e con ragione, non sono tanto gli amen
che
spesso
chiudono,
quasi a dare loro sepoltura, le manifestazioni celebrative, quanto il
tentativo
aperto
e sfacciato da parte dei nuovi arrivati di deformare, rovesciare la
Resistenza,
presentarla
con
un volto ministeriale,
dall’aspetto
piuttosto “sinistro”,
funereo.
I
circoli dirigenti di governo monopolizzando, o quasi, manifestazioni,
quanto meno le
più
ufficiali, sia sulle piazze che nei teatri e alla televisione,
cercano di presentare una
Resistenza
evirata, senza principi, senza obiettivi, senza programmi sociali,
come un
grande
movimento a cui tutti hanno partecipato, da Pio XII a Vittorio
Valletta, e nel quale, come ha scritto il generale Cadorna, “la
grande maggioranza dei caduti diede la vita
non
per creare in Italia un nuovo regime di libertà, ma in nome degli
ideali tradizionali:
Dio,
patria,
famiglia”.
Di
fronte a tali ed altre simili falsificazioni, come ritenerci
soddisfatti, come non brontolare?
La
televisione brilla nella sua opera di discriminazione e di
deformazione.
Certo,
le
trasmissioni
dedicate alla Resistenza costituiscono qualcosa di nuovo, un passo
avanti
rispetto
all’aperta denigrazione degli anni della guerra fredda, al punto
che la stampa
fascista
s’é
scagliata
contro
l’andata
in
onda
dei
documentari
delle
atrocità
compiute dai tedeschi
e dai fascisti e del martirio dei patrioti.
Ma
la lettura dei brani, la scelta delle lettere, delle ultime parole
dei condannati a
morte
è sempre fatta con sottile discriminazione (i comunisti non vi
figurano mai né
come
idee né come persone) nell’intento evidente di mettere in luce
l’eroismo, il sacrificio, le sofferenze, il pensiero rivolto a Dio.
Mai
si illuminano e si precisano gli ideali per cui i caduti lottarono.
Molti
dei discorsi celebrativi e delle trasmissioni televisive abbondano di
questa retorica del sacrificio, dell’eroe senza volto tanto lontano
e diverso dai vivi, appunto perché
morto.
Nell’esaltazione
astratta della forza d’animo e della nobiltà dei caduti appare
chiara
la volontà di svuotare la Resistenza della sua realtà ignorandone
gli ideali e il
programma.
Non
possiamo certo dichiararci soddisfatti, né tantomeno prestarci a
simili deformazioni della verità e della storia.
I
giovani vogliono sapere, ma non vogliono essere ingannati.
Per
di più stiamo osservando come coloro che contribuiscono a
trasformare la Resistenza in una sorta di mito, di fenomeno religioso, già cominciano a
credere alla
leggenda
che
essi stessi mettono in circolazione.
No,
la Resistenza non fu un fenomeno religioso, Né semplicemente la
manifestazione del sublime sacrificio di un popolo e neppure soltanto
un grande movimento di lotta
contro
lo straniero, o la rivolta dell’uomo per la salvezza dell’onore e
della dignità umana.
Non
è lecito ignorare gli ideali, le classi, le forze sociali che furono
il nerbo, le forze motrici della Resistenza.
E’
giusto cogliere l’elemento unitario che mosse gli antifascisti, i
patrioti, i combattenti della libertà, ma si deforma, si nega la
Resistenza quando si
tace
del suo programma che venne poi riassunto e tradotto in formule
giuridiche nella
Costituzione,
rimasta
ancora oggi,
nelle
sue parti fondamentali,
inattuata.
Nessuno
pretende che gli uomini di governo e le alte autorità dello Stato
celebrando
la
Resistenza ci parlino delle aspirazioni, delle esigenze che mossero
le correnti più
avanzate
(le
quali
furono
anche
le
più
numerose,
le
più
combattive,
quelle
che
diedero il maggior contributo di idee, di sacrificio, di forza operante e
dirigente), ma è giusto
chiedere
che almeno ci parlino degli obiettivi comuni, di quel programma di
rinnovamento
democratico
che attende ancora di essere realizzato:
la
Costituzione.
Gli
uomini della Resistenza non hanno lottato soltanto per cacciare i
tedeschi, per
battere
i fascisti e lasciare poi le cose come prima; essi hanno lottato per
dare all’Italia
un
altro
ordinamento,
un
regime
fondato
sulla
libertà
e
sulla
giustizia,
si
sono
battuti
per un
rinnovamento totale della nostra vita nazionale, per ricostruire
dalle fondamenta il
nostro
paese.
Celebrare
il ventennale della Resistenza significa riconoscere che, in questi
vent’anni trascorsi, dei passi in avanti sono stati compiuti, che
quella lotta non fu combattuta
invano;
ma significa altresì sottolineare che molta strada rimane da
percorrere per rinnovare l’Italia, per fare un paese - come
pensavano i resistenti e come fu scritto nella
Costituzione
- dove il popolo fosse veramente sovrano ed il benessere la
condizione di
vita
di tutti gli italiani e non il privilegio di pochi.
Nel
gennaio 1951 Pietro Nenni, ora vicepresidente del Consiglio,
scriveva: “La
Costituzione è ridotta ad un pezzo di carta che annuncia diritti
quotidianamente violati dal
potere
esecutivo, la democrazia è ridotta a delega di potere, il Parlamento
è diventato
un
organismo decorativo dominato da oligarchie d’interessi,
l’autonomia promessa ai
comuni
è imbrigliata dall’arbitrio dei prefetti, l’ordinamento
regionale è tuttora da attuare, i regolamenti di polizia ed i codici
sono ancora quelli fascisti, l’amministrazione statale è
anchilosata e risponde a criteri accentratori divenuti incompatibili
con la vita moderna, l’esercito e le forze armate tendono a
ricostituirsi come una casta, la polizia è il
braccio
secolare
del partito al potere”.
C’é
forse uno solo di questi aspetti così diligentemente elencati
tredici anni or sono
dall’attuale
vicepresidente del Consiglio, che sia venuto meno?
Sussistono
tutti e ad
essi
si potrebbero aggiungere gli scandali che si susseguono a ritmo
serrato, la corruzione che dilaga, il sottogoverno elevato a regime.
Eppure
sono passati tredici anni di
discorsi,
di parole, di promesse non mantenute,
di inadempienze, e tutto è rimasto
come
prima, in questo campo beninteso, perché non siamo così ciechi da
non vedere
che
per altri aspetti alcune cose sono andate avanti, sono mutate, per
merito soprattutto delle lotte delle masse lavoratrici.
Alcuni
si chiedono se oggi possiamo ancora riallacciarci alla Resistenza
oppure se
dobbiamo
constatare che in questi anni è avvenuta una frattura così profonda
che la
continuità
è ormai perduta.
Ritengo
che la Resistenza come fatto politico e culturale,
malgrado
le fratture, non soltanto è presente e valida ancora, ma vuole
altresì essere
studiata
perché lo stesso presente con i vuoti, le contraddizioni ed i
problemi che esso
pone,
può essere compreso soltanto se volgiamo lo sguardo al passato.
Dobbiamo
ricercarci ancora lo spirito, i valori ed anche i limiti, che forse
oggi ci appaiono più chiari.
Le
celebrazioni dovrebbero servire, più di quanto non stia avvenendo,
ad approfondire,
allargare,
dare nuovo slancio agli studi e alle interpretazioni della
Resistenza, che
sembra
invece che debbano lasciare il posto soltanto alla retorica ed ai
discorsi di circostanza.
Ciò
è soprattutto necessario nel momento in cui alle deformazioni
storiche si accompagna la pressione revisionista a cedere, a non essere più noi
stessi, ad adattarci al conformismo dilagante.
Noi
siamo, beninteso, per le manifestazioni unitarie purché da esse non
siano escluse,
messe in un angolino, quasi in castigo, le forze effettive della
Resistenza.
Siamo
per
le manifestazioni unitarie, anzi siamo noi dirigenti della lotta di
Liberazione che le
vogliamo
effettivamente unitarie, senza discriminazioni, tese a fare
comprendere che
cosa
è stata, che cosa voleva e vuole la Resistenza, quale fu il suo
programma e che
cosa
deve essere ancora fatto affinché sia realizzato.
Qualcuno
disse un tempo: “Parigi
val
bene
una messa”,
ma se ci si offre una messa in cambio
delle riforme di struttura,
allora
diciamo:
NO.
Degnamente
si celebra il ventennale della Resistenza se le forze democratiche
assumono
l’impegno unitario di operare perché la Costituzione sia
finalmente attuata nella
sua pienezza oggi e non nel duemila (sic),
perché le riforme di struttura siano attuate
oggi
e non tra un secolo.
Se
invece le celebrazioni devono risolversi semplicemente in tanti discorsi retorici e rievocativi, seguiti da cortei e banchetti, il
pericolo, dallo stesso
amico
Parri
denunciato,
che
passata
la
festa
e
spenti
i
lumi
“tutto
finisca
con
l’ultima eco delle prediche e la Resistenza sia fregata un’altra
volta”,
esiste
realmente.
Questo
pericolo
è
già
in
atto
nel
tentativo
di
giubilare
la
Resistenza
beatificandola.
E’
contro
questo
pericolo
che
dobbiamo
batterci
e
non
soltanto
brontolare,
rifiutandoci di aiutare il centro-sinistra a coprire una politica sostanzialmente
conservatrice (blocco
dei
salari e della scala mobile, alti profitti ai padroni, offensiva
contro l’unità e l’autonomia
dei sindacati, applicazione della linea Carli) sotto il manto e
l’aureola della Resistenza.
Ci
opponiamo a che i gruppi capitalisti, i cui giornali partecipano
anch’essi alle celebrazioni
del ventennale e che si gloriano essi stessi d’aver preso parte a
quella grande
lotta,
tentino di portare avanti, all’ombra di una bandiera che a loro non
appartiene, la
politica
di sfruttamento, di oppressione, di discriminazione che è la
negazione della
democrazia
e
della
libertà.