Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

venerdì 14 aprile 2023

LA RESISTENZA BEATIFICATA

 

(Pietro Secchia - Botte - in “Rivista storica del socialismo” n. 22 maggio-agosto 1964)

Mancano una decina di giorni al 25 Aprile, festa della liberazione dal nazifascismo. Viste le facezie sentite dai dirigenti governativi, temo altre dichiarazioni fuori luogo in vista della ricorrenza. Ma la presenza al governo di forze che si richiamano al fascismo, in modo più o meno velato, non è un caso. E’ il frutto di mancanze, sottovalutazioni, quando non convenienze a fornire letture improprie, incomplete della Resistenza. Dal bel libro "La Resistenza accusa 1945 - 1973" delle edizioni Mazzotta, di Pietro Secchia (dirigente comunista, dirigente partigiano, dirigente dell'ANPI), propongo un articolo scritto per il ventennale della Resistenza che vi consiglio di leggere non solo per la sua immutata attualità, ma principalmente come chiave per una corretta lettura della Resistenza; lotta non solo di avanguardie, ma di forze sociali, di uomini e donne, di operai, contadini e lavoratori, di città e di paesi, che maturarono una più avanzata coscienza democratica trasformando il fine della sconfitta del nazifascismo in programma per una società di pace, libera, uguale e solidale, come poi venne scritto nella nostra Costituzione. Un programma che Secchia lamentava non essere ancora attuato nel 1964. Non poteva sapere, ahimè, che ad oggi, 2023, non solo è rimasto inattuato, ma sta subendo una tremenda regressione. 

Luciano Granieri



Di seguito il testo: 

Cari compagni della “Rivista storica del socialismo”, ho fatto, in questi giorni, una scoperta sensazionale che mi costringe a cospargermi il capo di cenere e a scusarmi per la grave lacuna insita nel mio scritto sulla Fiat nel periodo della Resistenza, pubblicato nel n. 21 della vostra rivista. Ignoravo un grande testo, un’opera veramente monumentale, edita ben sedici anni or sono a cura dei grandi industriali, che porta nuova luce sul possente, decisivo contributo di questa emerita categoria al successo della Resistenza. I dirigenti dei più grandi monopoli, la Fiat in testa, sono stati tutti in prima linea nella lotta partigiana, e noi non lo sapevamo!

Un forte numero di questi uomini, ponendo risolutamente a repentaglio le proprie aziende, i loro averi, a volte e non poche, la loro libertà e la loro vita hanno completato, aiutato, integrato l’azione delle forze clandestine. In molti, infiniti casi, l’azione degli industriali a favore della Resistenza è stata così decisa ed aperta da apparire risolutiva e determinante. (Resistenza, Editoriale Italica 1948)” Non ci rimane che fare solenne ammenda e accingerci a rivedere molti giudizi, a rielaborare profondamente non soltanto lo studio sulla Fiat, ma tutta la storia delle Resistenza, poiché ad aver peccato, e ciò mi è di sollievo, siamo in molti e mi trovo in buona compagnia.

Avevamo, è vero, un pò tutti nei nostri studi tenuto in considerazione l’atteggiamento positivo e il contributo dato da un certo numeri di piccoli e medi industriali, alcuni dei quali pagarono con la vita il loro amore alla libertà. Ma non si tratta di questo. Ci eravamo dimenticati dei grandissimi industriali; ancor peggio, avevamo posto in cattiva luce il loro comportamento ed in genere quello dei gruppi monopolistici.

Molti di questi grandi capitani d’industria erano dei cospiratori, dei partigiani e noi lo ignoravamo. Essi hanno armato, finanziato la Resistenza, ridotto al minimo la produzione, organizzato il sabotaggio e gli scioperi nelle loro fabbriche, opposto coraggiosamente i loro petti al tentativo tedesco di deportare gli operai. Non c’è direzione di grande complesso industriale che non rivendichi “di essersi opposta energicamente” all’invio delle masse lavoratrici in Germania; ognuno dei dirigenti lottò sino alla fine  con forza e abilità”

L’errore nel quale siamo incorsi è veramente imperdonabile. Gli operai avviati a migliaia oltre il Brennero, a Mauthausen, a Buchenwald, negli altri campi della morte, non dovevano essere italiani, forse erano marziani.

C’è di più. In molti posti i combattimenti ebbero luogo all’interno degli stabilimenti o nelle immediate vicinanze ed i feriti erano ricoverati nelle infermerie delle aziende; il reciproco soccorso, l’affetto, l’amor di patria era uguale in industriali e partigiani.” Tutte cose da noi sempre ignorate, e tutte sono documentate fabbrica per fabbrica, cantiere per cantiere. Non c’era officina, a cominciare dalla Fiat, che non nascondesse  un comando partigiano, missioni alleate, stazioni radiotrasmittenti e riceventi, depositi di armi, servizi informativi, comitati di agitazione. Veramente questo era stato da noi documentato, ma con una grave omissione di fondo: non avevamo detto che tutto ciò avveniva per iniziativa, con il consenso ed il pieno appoggio dei grandi industriali.

Ignoravamo che “al mattino del 25 luglio il Sen. Giovanni Agnelli arrivò presto in ufficio e il suo primo atto fu quello di telegrafare a Badoglio per salutare a nome di tutta la Fiat il ritorno alla libertà e per mettere a disposizione del nuovo governo l’opera della Fiat ed il giornale La Stampa di proprietà della Fiat”. Ignoravamo che “il pomeriggio del 10 settembre alla Fiat si attendeva che da Roma si confermasse chiaro, risoluto, l’ordine della resistenza militare ai tedeschi. La cosa era possibile con l’appoggio del popolo. Il direttore generale della Fiat, professor Vittorio Valletta, si precipitò al comando militare ed ebbe con il generale Adami-Rossi un colloquio drammatico: bisogna opporsi, resistere, combattere, mandare contro le forze germaniche le nostre forze armate, sollevare la popolazione”.

Valletta si pone così alla testa dell’insurrezione nazionale, la lettura diventa, di pagina in pagina, sempre più avvincente. Sono elencate, ad una ad una, tutte le date in cui, nei 18 mesi di occupazione, Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta vennero dai tedeschi minacciati d’arresto, chiamati, alcune volte anche di notte, portati in certe ville dove si svolgevano fieri colloqui con i comandi tedeschi. Fortunatamente la scamparono sempre, ma ogni volta proprio per un pelo.

Proseguendo nella lettura troviamo tutti gli altri, i compagni Donegani, Farina, Mariotti, Pirelli, Rivetti, i Crespi del Corriere della sera, i dirigenti della Montecatini, delle Ferriere Lombarde, delle Officine Reggiane, dei Cucirini Cantoni Coats, dell’Isotta Fraschini, delle Officine Falck, della Dalmine, fior fiore dei patrioti al cento per cento. Non manca nessuno. E dire che siamo stati così ingiusti! Ma una qualche attenuante ci deve essere concessa, perché questi grandi industriali che hanno provveduto con un così grosso e ricco volume a fornirci tutte queste notizie, confessano che avevano in passato, per modestia, taciuto di “ avere svolto quella rischiosa attività in modo invisibile, quanto verrà qui esposto”, essi concludono, per molti apparirà una rivelazione. Il tedesco non bisognava affrontarlo, occorreva aggirarlo. Si può dire che tutta la lotta antitedesca si svolse con questa tattica giudiziosa, specialmente considerata oggi “.

E dire che noi e i nostri comandi partigiani non conoscevano una tattica così abile. Eravamo proprio degli scriteriati, sprovveduti dei principi più elementari dell’arte militare.

A parte le amenità, ritengo che il tema meriti di essere ripreso in modo sereno e pacato. Anche quel cumulo di facezie, di bugie, di invenzioni, di dati affastellati, ma non tutti falsi, ha il suo interesse. Le menzogne sono anch’esse, a modo loro, delle testimonianze; ci spingono intanto a verificare i dati, ad approfondire la ricerca, ad esplorare più da vicino certi aspetti della Resistenza, trattati finora piuttosto sommariamente.

Recenti studi hanno affrontato il problema dell’amministrazione tedesca in Italia e dei suoi rapporti con le organizzazioni economiche e industriali; ma nessuno di noi ha mai ignorato che legami finanziari e quindi politici i grandi capitalisti li hanno avuti anche  con gli Alleati, con il CLN, con certi uomini dell’antifascismo e della Resistenza. Abbiamo sempre riconosciuto che, dopo il 25 luglio e specialmente dopo l’8 settembre, i grandi industriali andarono mutando il loro atteggiamento, non tanto perché toccati dalla grazia divina e convertiti improvvisamente agli ideali dell’antifascismo e della Resistenza, ma poiché era ormai evidente la sconfitta del nazismo. Da qui la loro cauta fronda nei confronti dei tedeschi, della Repubblica di Salò, il loro doppiogiochismo. abbiamo mai taciuto delle influenze che essi riuscirono ad esercitare nella situazione (l’attesismo) ed all’interno stesso dei CLN. Non so però se le abbiamo tutte soppesate ed adeguatamente valutate anche in rapporto al modo come andarono a finire le cose. Problemi tutti sui quali ancora molto dovremo scavare e che ci potranno servire a meglio comprendere anche il presente.

Ma in questo momento siamo in altre faccende affaccendati. Le celebrazioni del ventennale della Resistenza si susseguono a ritmo serrato: è tutta una processione di discorsi, di inaugurazioni di lapidi, monumenti, tra preci, fiori, musiche, fanfare e l’elevarsi al vento di inni di gaudio.

Su questo ventennale della Resistenza, ha osservato Alessandro Galante Garrone, sembra spirare uno zefiro soave; sembra “un’aura dolce, senza turbamento, avere in sé” , come diceva il padre Dante, all’insegna del volemose bene.


Tutti oggi celebrano la Resistenza, non manca proprio nessuno. L’Italia ufficiale e popolare, laica e cattolica. persino i gesuiti di Civiltà Cattolica hanno sentito il bisogno di essere presenti. Naturalmente la celebrano a modo loro, aprendo un editoriale con le autorevoli parole pronunciate da Paolo VI per dichiarare che la ricorrenza è per l’Italia piena di memorie tragiche e grandi”. La celebrano come “ una lotta fratricida che ha lasciato degli strascichi dolorosi nell’animo degli italiani, una ferita non ancora rimarginata; una guerra civile combattuta con spaventosa violenza che ha portato le tre parti in lotta (partigiani, tedeschi e fascisti) ad efferatezze, ad eccidi, a rappresaglie e vendette terribili “

Il bene ed il male, il torto e la ragione, l’umanità e la barbarie stavano naturalmente, secondo i reverendi padri, dalle due parti. Vittime e carnefici, oppressi ed oppressori sono messi in fascio e accumunati in un solo destino.

Al coro s’é unito persino Indro Montanelli, che tutto giulivo va cantando a distesa che bellissima cosa rievocare la Resistenza”.

Non mancano, è vero, alcuni brontoloni, ai quali l’amico Parri paternamente ricorda che “ l’ufficialità, spesso refrigerante, l’abbiamo voluta noi, perché in questo paese dalla memoria così breve, una prima garanzia contro i dietrofront la dà, e questo passaporto occorre per arrivare alla scuola. Io mi sono sinceramente rallegrato”, continua Maurizio, “ quando ho sentito uomini di governo, lontani spesso dalle nostre esperienze, onorare i fatti della Liberazione con lo stesso accento di chi ha combattuto per essa. Ed hanno torto i compagni brontoloni, desiderosi ed insieme diffidenti di quanto sa di ufficiale”.

Appartengo anch’io, modestamente, alla schiera dei celebratori ed al tempo stesso dei brontoloni. Non c’é domenica e spesso anche sabato che non mi ritrovi in qualche piazza o teatro a commemorare la Resistenza assieme a uomini che hanno combattuto per essa, o ad altri che, per usare il diplomatico eufemismo suggerito da Parri, furono   in quegli anni “lontani dalle nostre esperienze” di ciò non posso anch’io che essere lieto.

Altro è il motivo del brontolio. In troppe manifestazioni ufficiali la Resistenza è celebrata soltanto da uomini che furono lontani dalle nostre, ed assai vicini, ad altre esperienze, per cui ne viene fuori la celebrazione di una Resistenza che non fu certo la nostra né quella di Maurizio.

Non è l’ufficialità, non sono i nuovi cantori della Resistenza a dare fastidio. Che siano uomini di governo ed alte autorità dello Stato a celebrarla può essere elemento positivo e contribuire a farla penetrare negli studi, nelle scuole e nelle aule magne. Purché celebrino la Resistenza quale essa fu, con i suoi ideali ed il suo programma e non una sorta di mito o di divinità fatta ad immagine e somiglianza dell’odierno governo        di  centro-sinistra più che non a quello che stava alla testa della Liberazione nazionale: il CLN.

E’ vero che oggi sta sugli altari la teoria del minor male, del “meglio accontentarci di poco”, “da cosa nasce cosa”, “meglio l’uovo oggi che la gallina domani”. E sia purché, come diceva Antonio Gramsci, non si tratti di un uovo di pidocchio.

Ciò di cui non pochi brontolano, e con ragione, non sono tanto gli amen che spesso chiudono, quasi a dare loro sepoltura, le manifestazioni celebrative, quanto il tentativo aperto e sfacciato da parte dei nuovi arrivati di deformare, rovesciare la Resistenza, presentarla con un volto ministeriale, dall’aspetto piuttosto “sinistro”, funereo.

I circoli dirigenti di governo monopolizzando, o quasi, manifestazioni, quanto meno le più ufficiali, sia sulle piazze che nei teatri e alla televisione, cercano di presentare una Resistenza evirata, senza principi, senza obiettivi, senza programmi sociali, come un grande movimento a cui tutti hanno partecipato, da Pio XII a Vittorio Valletta, e nel quale, come ha scritto il generale Cadorna, “la grande maggioranza dei caduti diede la vita  non per creare in Italia un nuovo regime di libertà, ma in nome degli ideali tradizionali: Dio, patria, famiglia”.

Di fronte a tali ed altre simili falsificazioni, come ritenerci soddisfatti, come non brontolare?

La televisione brilla nella sua opera di discriminazione e di deformazione. Certo, le trasmissioni dedicate alla Resistenza costituiscono qualcosa di nuovo, un passo avanti rispetto all’aperta denigrazione degli anni della guerra fredda, al punto che la stampa fascista s’é scagliata contro l’andata in onda dei documentari delle atrocità compiute     dai  tedeschi e dai fascisti e del martirio dei patrioti.

Ma la lettura dei brani, la scelta delle lettere, delle ultime parole dei condannati a morte è sempre fatta con sottile discriminazione (i comunisti non vi figurano mai né come idee né come persone) nell’intento evidente di mettere in luce l’eroismo, il sacrificio, le sofferenze, il pensiero rivolto a Dio. Mai si illuminano e si precisano gli ideali per      cui i caduti lottarono.

Molti dei discorsi celebrativi e delle trasmissioni televisive abbondano di questa retorica del sacrificio, dell’eroe senza volto tanto lontano e diverso dai vivi, appunto perché morto. Nell’esaltazione astratta della forza d’animo e della nobiltà dei caduti appare chiara la volontà di svuotare la Resistenza della sua realtà ignorandone gli ideali e il programma.

Non possiamo certo dichiararci soddisfatti, né tantomeno prestarci a simili deformazioni della verità e della storia. I giovani vogliono sapere, ma non vogliono essere ingannati. Per di più stiamo osservando come coloro che contribuiscono a trasformare la    Resistenza in una sorta di mito,  di fenomeno religioso, già cominciano a credere alla leggenda che essi stessi mettono in circolazione.

No, la Resistenza non fu un fenomeno religioso, Né semplicemente la manifestazione del sublime sacrificio di un popolo e neppure soltanto un grande movimento di lotta contro lo straniero, o la rivolta dell’uomo per la salvezza dell’onore e della dignità umana. Non è lecito ignorare gli ideali, le classi, le forze sociali che furono il nerbo, le forze       motrici della Resistenza. E’ giusto cogliere l’elemento unitario che mosse gli antifascisti, i patrioti, i combattenti della libertà, ma si deforma, si nega la Resistenza quando si tace del suo programma che venne poi riassunto e tradotto in formule giuridiche nella Costituzione, rimasta ancora oggi, nelle sue parti fondamentali, inattuata.

Nessuno pretende che gli uomini di governo e le alte autorità dello Stato celebrando la Resistenza ci parlino delle aspirazioni, delle esigenze che mossero le correnti più avanzate (le quali furono anche le più numerose, le più combattive, quelle che diedero  il  maggior contributo di idee, di sacrificio, di forza operante e dirigente), ma è giusto chiedere che almeno ci parlino degli obiettivi comuni, di quel programma di rinnovamento democratico che attende ancora di essere realizzato: la Costituzione.

Gli uomini della Resistenza non hanno lottato soltanto per cacciare i tedeschi, per battere i fascisti e lasciare poi le cose come prima; essi hanno lottato per dare all’Italia un altro ordinamento, un regime fondato sulla libertà e sulla giustizia, si sono battuti per un rinnovamento totale della nostra vita nazionale, per ricostruire dalle fondamenta il nostro paese.

Celebrare il ventennale della Resistenza significa riconoscere che, in questi vent’anni trascorsi, dei passi in avanti sono stati compiuti, che quella lotta non fu combattuta invano; ma significa altresì sottolineare che molta strada rimane da percorrere per rinnovare l’Italia, per fare un paese - come pensavano i resistenti e come fu scritto nella Costituzione - dove il popolo fosse veramente sovrano ed il benessere la condizione di vita di tutti gli italiani e non il privilegio di pochi.

Nel gennaio 1951 Pietro Nenni, ora vicepresidente del Consiglio, scriveva: “La Costituzione è ridotta ad un pezzo di carta che annuncia diritti quotidianamente violati dal potere esecutivo, la democrazia è ridotta a delega di potere, il Parlamento è diventato un organismo decorativo dominato da oligarchie d’interessi, l’autonomia promessa ai comuni è imbrigliata dall’arbitrio dei prefetti, l’ordinamento regionale è tuttora da attuare, i regolamenti di polizia ed i codici sono ancora quelli fascisti, l’amministrazione statale è anchilosata e risponde a criteri accentratori divenuti incompatibili con la vita moderna, l’esercito e le forze armate tendono a ricostituirsi come una casta, la polizia è il braccio secolare del partito al potere”.

C’é forse uno solo di questi aspetti così diligentemente elencati tredici anni or sono dall’attuale vicepresidente del Consiglio, che sia venuto meno? Sussistono tutti e ad essi si potrebbero aggiungere gli scandali che si susseguono a ritmo serrato, la corruzione che dilaga, il sottogoverno elevato a regime. Eppure sono passati tredici anni di discorsi, di parole, di promesse non mantenute, di inadempienze, e tutto è rimasto come prima, in questo campo beninteso, perché non siamo così ciechi da non vedere che per altri aspetti alcune cose sono andate avanti, sono mutate, per merito soprattutto delle lotte delle masse lavoratrici.

Alcuni si chiedono se oggi possiamo ancora riallacciarci alla Resistenza oppure se dobbiamo constatare che in questi anni è avvenuta una frattura così profonda che la continuità è ormai perduta. Ritengo che la Resistenza come fatto politico e culturale, malgrado le fratture, non soltanto è presente e valida ancora, ma vuole altresì essere studiata perché lo stesso presente con i vuoti, le contraddizioni ed i problemi che esso pone, può essere compreso soltanto se volgiamo lo sguardo al passato. Dobbiamo ricercarci ancora lo spirito, i valori ed anche i limiti, che forse oggi ci appaiono più chiari. Le celebrazioni dovrebbero servire, più di quanto non stia avvenendo, ad approfondire, allargare, dare nuovo slancio agli studi e alle interpretazioni della Resistenza, che sembra invece che debbano lasciare il posto soltanto alla retorica ed ai discorsi di circostanza. Ciò è soprattutto necessario nel momento in cui alle deformazioni storiche          si accompagna la pressione revisionista a cedere, a non essere più noi stessi, ad adattarci al conformismo dilagante.

Noi siamo, beninteso, per le manifestazioni unitarie purché da esse non siano escluse, messe in un angolino, quasi in castigo, le forze effettive della Resistenza. Siamo per le manifestazioni unitarie, anzi siamo noi dirigenti della lotta di Liberazione che le vogliamo effettivamente unitarie, senza discriminazioni, tese a fare comprendere che cosa è stata, che cosa voleva e vuole la Resistenza, quale fu il suo programma e che cosa deve essere ancora fatto affinché sia realizzato.

Qualcuno disse un tempo: “Parigi val bene una messa”, ma se ci si offre una messa  in  cambio delle riforme di struttura, allora diciamo: NO.

Degnamente si celebra il ventennale della Resistenza se le forze democratiche assumono l’impegno unitario di operare perché la Costituzione sia finalmente attuata nella sua pienezza oggi e non nel duemila (sic), perché le riforme di struttura siano attuate  oggi e non tra un secolo. Se invece le celebrazioni devono risolversi semplicemente in tanti discorsi retorici      e rievocativi, seguiti da cortei e banchetti, il pericolo, dallo stesso amico Parri denunciato, che passata la festa e spenti i lumi tutto finisca con l’ultima     eco delle  prediche e la Resistenza sia fregata un’altra volta”, esiste realmente.

Questo pericolo è già in atto nel tentativo di giubilare la Resistenza beatificandola. E’ contro questo pericolo che dobbiamo batterci e non soltanto brontolare, rifiutandoci      di aiutare il centro-sinistra a coprire una politica sostanzialmente conservatrice (blocco dei salari e della scala mobile, alti profitti ai padroni, offensiva contro l’unità e l’autonomia dei sindacati, applicazione della linea Carli) sotto il manto e l’aureola della Resistenza.

Ci opponiamo a che i gruppi capitalisti, i cui giornali partecipano anch’essi alle celebrazioni del ventennale e che si gloriano essi stessi d’aver preso parte a quella grande lotta, tentino di portare avanti, all’ombra di una bandiera che a loro non appartiene, la politica di sfruttamento, di oppressione, di discriminazione che è la negazione della democrazia e della libertà.




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