Immaginare che ad un tratto i capitali privati decidano di trasferire il proprio core business dalla speculazione (di vario tipo: residenziale, infrastrutturale, commerciale, logistica, etc) alla manutenzione del già costruito, significa ignorare il principio di valorizzazione dell’economia privata. Significherebbe costringere quei capitali a muoversi secondo indicazioni pubbliche, cioè politiche. Vorrebbe dire vincolare i movimenti di capitali, affacciarsi cioè nel regno dell’assolutamente proibito. Solo per dare un cenno dell’impresa, proprio oggi, nel classico coro post-catastrofe del “ci vuole più Stato” e del “servono più investimenti”, sul Corriere della Sera Lorenzo Bini Smaghi così raccontava la crisi della Lira turca: «Se c’è un fattore che tende a coagulare i comportamenti di migliaia di operatori è proprio il timore di misure come i controlli sui movimenti di capitale». A pagina uno ci vuole più Stato, ma a pagina trenta si ricorda che questo non deve intromettersi nei processi economici. Vincolare, dirigere, perimetrare la libertà dei capitali di valorizzarsi indefinitamente è il non expedit del capitalismo, ancor più accentuato nella sua fase liberista nella quale stiamo invecchiando.
Dovremmo allora sperare nei capitali pubblici, nei soldi dello Stato, l’atteso raddrizzatore dei torti dell’economia privata. Anche qui, però, siamo in prossimità dell’allucinazione post-trauma. In primo luogo, sfuggirebbe il senso di un’economia privatizzata (come, in questo caso, quella delle infrastrutture autostradali) che però scarica i costi di manutenzione sulle casse pubbliche. Occorrerebbe dunque rinazionalizzare. Figuriamoci. Ma questo è il punto meno importante. Il cuore del ragionamento sta altrove.
Quel che occorre non è tanto il “più Stato” inteso dalla borghesia al potere (cioè lo Stato repressore), ma uno Stato che interviene nella gestione dell’economia, che torni ad occupare un ruolo economico non meramente regolatore, ma attore protagonista. Uno Stato cioè che entri in concorrenza con l’economia privata, e proprio nei campi che in questo trentennio sono stati privatizzati: servizi pubblici quali la mobilità e i trasporti; forniture di beni e servizi essenziali; produzione industriale; produzione culturale; costruzione edilizia; eccetera. Al netto del contesto politico, geopolitico ed economico di riferimento, naturalmente avverso a un processo di questo tipo, pensare questo “Stato manutentore” significherebbe accettare l’idea che lo Stato serva ancora a qualcosa, e che anzi questo possa costituire addirittura un argine alla privatizzazione di ogni aspetto della vita pubblica, che la ritirata dello Stato dall’economia, in questi anni, è servita solamente a favorire la valorizzazione del capitale privato e non la liberazione dalle maglie della coercizione legislativa. Significherebbe, cioè, rimettere in discussione una serie di mitologie politiche su cui campa tutto lo spettro della politica, dalla destra liberista alla sinistra radicale. Lo “Stato manutentore” non esiste, fatevene una ragione. Esiste un potere politico che orienta gli indirizzi economici dello Stato, occupando spazi o ritirandosi da essi. La botte piena e la moglie ubriaca vale solo nei desideri di qualche sognatore fuori tempo.
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