Dannato Coronavirus! Si è portato via anche Lee Konitz. Il sassofonista è’
morto il 15 aprile scorso a 92 anni presso il Lennox Hospital Hill d New York.
Lui, nato a Chicago nel 1927, ha attraversato in punta di piedi 70 anni di jazz. In punta di piedi, perché la
critica non se ne è mai occupata in modo eclatante. Forse per la sua
innata voglia di rimanere all’interno di un progetto, collaborando per esso e non
emergendo da esso. In realtà Lee Konitz ha percorso
da innovatore gran parte della sua strada jazzistica.
Al suo debutto discografico nel 1947 con l’orchestra
di Claude Thornill, con arrangiatore Gil Evans, molti, apprezzando la voce del suo
sax alto, esclamarono: “Finalmente uno che
non suona come Charlie Parker”. L’assolo in Yardbird Suite rivela comunque una performance rivoluzionaria, non basata sulle sortite infuocate di un fraseggio alla Charlie Parker, ma sulla
particolarità del suono, sulla ricerca di effetti cromatici mai proposti prima .
Una costruzione influenzata delle figure
più asciutte e distaccate della poetica di Lester
Young e l’intellettualità del fraseggio del Bix Beiderbecke nel periodo degli Wolverines.
In realtà quel modo di concepire la musica
scaturiva dalla stretta frequentazione con il suo maestro, il pianista Lennie Tristano. Un sodalizio didattico-creativo–sperimentale, condiviso con musicisti come il tenor sassofonista Warne Marsh e il chitarrista Billiy Bauer, nato per caso a seguito di un incontro al Winkin’ Pup di
Chicago nel 1943. E’ indubbio che le stratificazioni armoniche , le polifonie, insomma le diavolerie di casa Tristano, abbiano
forgiato l’originalità, non solo della voce strumentale di Konitz, ma anche il modo di concepire il jazz e in generale la sua espressione artistica.
In quel
periodo per un sassofonista bianco la destinazione più naturale era quella di
finire in un’orchestra swing, o comunque in un ensemble da ballo. La stessa
orchestra di Thornill si divideva fra performance più prettamente jazzistiche,
ai cui arrangiamenti pensava Gill Evans, e quelle tipicamente da
intrattenimento. Quell’intrattenimento in odio a Tristano, percepito come accettazione
e consegna incondizionata ai diktat del mercato. Odio condiviso da Lee
Konitz. Per questo i riferimenti del
sassofonista di Chicago esulavano dalla narrazione ludica dello swing per rifarsi al jazz degli anni venti, Louis
Armstrong e Bix Beiderecke (quello
svincolato dall’orchestra di Whitemann in particolare).
Non è un caso che Lee Konitz abbia
riproposto pari pari, l’assolo di Louis Armstrong in Struttin
with some barbacue sia nelle esecuzioni in duo con il trombonista Marshall
Brown nel ’67 che e nel suo nonetto del ’77.
La vita di Konitz in quel periodo si divideva
fra Tristano e Gil Evans. Del primo abbiamo detto, del secondo giova ricordare
che, interrotta la collaborazione con Thornill, coinvolse Konitz nella
composizione di un nuovo gruppo di nove elementi con l’inserimento del corno francese e
del basso a tuba. Nacque la “Tuba Band” che riuscì ad ottenere nel
1948 una scrittura per 15 giorni al Royal Roost
e che, con pochi ritocchi, fra il 1949 e il 1950, fu protagonista dell’incisione di “Birth of The Cool”, per la Capitol , a nome
di Miles Davis. Al disco si attribuisce la nascita dello stile "cool jazz", dove per “cool” non s’intende tanto “freddo”, quanto “distaccato”. Era la forma di protesta dei, così detti, "coolster" i quali , a
differenza di Parker e soci, tesi a destrutturare il rapporto fra armonia e melodia, come metafora della distruzione di una società che discriminava i neri, contemplava
una ricerca espressiva originale, intellettuale, scevra da implicazioni emotive.
Un “dissenso bianco” che combatteva il contesto sociale in cui operava,
non contrastandolo , ma rifiutandolo, estraniandosi completamente da esso . In comune con il Be Bop questo stile subì il
rifiuto del mercato, per cui ai suoi
protagonisti non rimase che cambiare registro per sopravvivere. Alcuni
migrarono a Los Angeles per dar vita al West Coast Jazz, altri proseguirono in un solco più propriamente
mainstream, altri ancora, come Tristano,
si dedicarono completamente all’insegnamento.
Lee Konitz fu scritturato da Stan Kenton, nella cui
orchestra militò dal 1952 al 1954. Fu un cambio di passo notevole: dalla massima
ricerca espressiva di Tristano alla rigida formalità del direttore d’orchestra
californiano che aveva in odio i neri e
limitava al massimo il ricorso alle improvvisazioni. Nonostante ciò Konitz potè
godere di una certa libertà nel dispiegare il suo linguaggio proprio in virtù delle
sue capacità straordinarie. La militanza
nell’orchestra di Kenton gli consentì di girare l’Europa e scoprire che molti
sassofonisti europei avevano lui come
modello piuttosto che Parker. Come prevedibile però l’orchestra cominciò a
stare stretta a Konitz, compresso in sonorità rigide e in strutture troppo
preordinate.
Tornò così a
frequentare Tristano e i vecchi amici. Ma nel
frattempo il suo rapporto con la musica era cambiato. Mal sopportava il distacco di un’improvvisazione eterea scevra da ogni
concessione all’emozione. Il critico Nat
Hentoff riferì un aneddoto rivelatore, in questo senso, raccontatogli proprio da Konitz “Stavo
suonando con Lennie Tristano in un night. Ci allontanammo dal palco alla fine
del set sottobraccio, e Lennie fa: “Come va”? “Così così” rispondo. “Dai”
sbotta Lennie “hai suonato da Dio”. Mi urtò l’idea di questa distanza tra il
mio stato d’animo e la mia resa musicale…
Ho scoperto che la cosa più importante è divertirsi suonando. Non sono
più così determinato a sbalordire con la mia originalità. Se viene viene …… In
diversi giovani jazzisti sento tutti gli ingredienti giusti, ma non sento una
nota che abbia il feeling personale dell’artista. Viceversa io cerco di
mettercelo quando suono”.
Dunque il nuovo stile di Konitz era
diventato rilassato, quasi conviviale in
cui si rilevava la tendenza a lavorare
sugli standard, procedura che condivise con Warne Marsh, suo compagno in tante registrazioni. In quel periodo è ’richiesto da molti musicisti e arrangiatori
per suonare in vari progetti , espressioni
polifoniche, come quelle proposte da Gerry Mulligan, Jimmy Giuffrè a George Russell. Alla fine degli anni ’50 la sua attività subì un
rallentamento , si trasferì in
California nella Carmen Valley abbandonando quasi completamente la musica fino al 1961,
quando un nuova sollecitazione creativa lo richiamava ad un contributo nuovo e
rivoluzionario, tanto affascinante quanto precursore di nuove
strade.
E’ il tema
dell’improvvisazione svincolata da
gabbie armoniche, depurata dall’affollarsi di troppi accordi fino al puro incedere melodico. Anche questa
visione è figlia delle frequentazioni con Tristano, ma è portata da Konitz
all’estremo. Passa attraverso l’esperienza in trio, senza pianoforte con Sonny
Dallas al contrabbasso ed Elvin Jones
alla batteria, (Motion per la Verve
1961), le registrazioni in duo con il chitarrista Jim Hall (Erb per la Milestone 1967) e il pianista franco-algerino Martial
Solal, (Duplicity per la Horo 1977)
fino ad improvvisazioni in solitaria il cui fraseggio influenzerà diversi sassofonisti free da Rosce Mitchell
ad Anthony Braxton che lo considererà un
suo ispiratore. Si moltiplicarono i viaggi in Europa e soprattutto in Italia.
Una testimonianza della nuova fase sperimentale di Lee Konitz ebbe luogo proprio in Italia con il bellissimo “Stereokonitz” inciso nel 1968 per la Rca
con Enrico Rava alla tromba, Franco D’Andrea al pianoforte, Giovanni Tommaso al Cotrabbasso, Gegè Munari alla batteria.
Con il
passare del tempo le apparizioni di Lee Konitz saranno improntante alle collaborazioni, piuttosto che ad un’esaltazione solistica. Condividerà dischi e palcoscenici
con tanti musicisti, non solo di jazz: da Andrew
Hill a Dave Brubeck, da Paul Bley fino a Michel Petrucciani, Ornette Coleman, Chick Corea Si fa prima a citare i
musicisti con cui non ha collaborato. Molti jazzisti in Italia hanno suonato
con lui e lo hanno apprezzato infinitamente come ad esempio Stefano Bollani ed Enrico Pieranunzi. Perfino Ornella Vanoni ha usufruito del suo valido contributo.
Insomma il Coronavirus ci ha privato di un musicista che ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione del linguaggio jazzistico, ma lo ha fatto in punta di piedi e questa è stata la sua grandezza.
Insomma il Coronavirus ci ha privato di un musicista che ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione del linguaggio jazzistico, ma lo ha fatto in punta di piedi e questa è stata la sua grandezza.
Purtroppo il mondo del jazz, come tutto il panorama artistico, deve piangere altre vittime straziate dalla Pandemia.
Ci riferiamo a Ellis Marsalis, pianista, docente di musica e grande personalità di New Orleans oltre che padre di Wynton e Branford, e dei meno noti Delfeayo e Jason,anch’essi musicsti.
Anche il chitarrista Bucky Pizzarelli, è scomparso. Uno strumentista considerato l’erede di Django Reinhardt , nonché apprezzato accompagnatore di Frank Sinatra.
Ellis Marsalis |
Desta impressione la morte del cinquantanovenne trombettista di Philadelphia Wallace Roney. Artista di spicco in quell’eletta schiera di musicisti, (i fratelli Marsalis, Terence Blancard, Kenny Garret, per citarne solo alcuni ) che, fattisi le ossa nei Jazz Messanger di Art Blakey animarono la scena New Bob degli anni ’80 e ’90. La poliedrica poetica di Rooney lo aveva portato a condividere esperienze free con Pharoah Sanders e Ornette Coleman. Era considerato l’erede di Miles Davis, suo vero e proprio idolo con cui aveva avuto l’occasione di suonare insieme. Non a caso vinse un grammy nel 1994 per “A tribute To Miles” registrato per la Qwest Record con il quintetto storico di Miles, Wayne Shorter - sassofoni, Herbie Hancock-piano, Ron Carter – contrabbasso,Tony Williams-batteria.
Il mondo dell’arte sta pagando un tributo pesante al virus. Speriamo che finisca presto.
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