Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

lunedì 4 febbraio 2013

Aureliade (Roma-Cagliari 2-4)

Kansas City 1927


Aurelio Marco Tullio Abelardo Antunes Coimbra Limonov Ruzzle Andreazzoli, meglio noto come Aurelio Andreazzoli dal giorno in cui Taddei gli dedicò un dribbling sbagliato con relativo avvitamento di caviglie durante una partita di Champions, nasce tra Massa e Carrara il 5 novembre 1953, su un blocco di marmo.

Di famiglia umile ma cazzuta, il piccolo Aurelio Marco Tullio Abelardo Antunes Coimbra Limonov Ruzzle s'appassiona da subito al giuoco del calcio grazie alla clandestina frequentazione di Corrado Orrico, chiacchierato massese di tredici anni più grande di lui, che di lì a qualche anno il fato avrebbe voluto allenatore dell'Ambrosiana Inter. I genitori tentano senza esito di ostacolare quella pericolosa amicizia fatta di spinelli, Aldo Spinelli, canzoni di Piero Ciampi, escavazioni e sovrapposizioni di blocchi di marmo, ma dati gli eccellenti risultati scolastici frutto di un'innata predisposizione per la matematica e le geometrie, abbozzano e fanno pippa.

Iniziato precocemente alle gioie del sesso, del fumo e dell'alcol (conosciute tutte in un’unica notte grazie a una prostituta russa di nome Hulk), Andreazzoli è già uomo di calcio a 11 anni, allorché, come narra la leggenda che avrebbe plasmato l’immaginario delle giovani leve locali che nel suo culto cresceranno (Evani, Coda, Francini, Lorieri e l’indimenticato Cristiano Zanetti), Aurelio si presenta al campo della Massese con il volto insolitamente ricoperto di ispida peluria. E’ febbraio, il carnevale impazza, ma il burbero tecnico della scuola calcio Giovanni Pascoli Footbal Club è omofobo uomo d'altri tempi intollerante a quelle che lui chiama "frocerie".
Giustappostosi al giovane Aurelio ecc. ecc., con un colpo secco prova a strapparne la peluria pensandola posticcia. Un rigagnolo di sangue zampilla dal bulbo sotto al mento del piccolo Andreazzoli. La sua è barba vera. Aurelio è già uomo.

E un uomo di calcio, per quanto giovane, spesso è un uomo in pericolo.

Corre l’anno 1964, il Brasile ha vinto i mondiali di calcio da due anni, l’entusiasmo popolare è alle stelle, ma la federazione e ancora più in alto il governo sanno che tutto ciò non può durare a lungo. Occorre programmare, per vincere ancora. Ondate di calciatori verdeoro dalla scarsa levatura tecnica ma dall’infallibile fiuto per il bel calcio invadono il vecchio continente pronti a riferire al governo patrio. L’obiettivo è chiaro: di talento ce n’è da vendere, la disciplina europea è ciò che manca per il definitivo salto di qualità. Servono struttura, severità, metodo. Ben presto le attenzioni si concentrano sul giovane Andreazzoli.

Nei quotidiani dell’epoca, solo un trafiletto. “Il rapimento del piccolo Aurelio tiene Massa col fiato sospeso”. Dopo pochi giorni, il silenzio. Un silenzio che Brasilia ha pagato profumatamente.

Il viaggio non è breve. Per sfuggire ai controlli aeroportuali gli 007 sudamericani optano per un cargo battente bandiera boema, non senza difficoltà, dato che nessuno sa come sia fatta. Durante i 25 giorni di navigazione, Aurelio non si scompone: non chiede della mamma, non chiede giocattoli, non fa domande. Chiede solo tre cose: una lavagna, un gesso, e un pallone. Ottenuti gli strumenti del mestiere inizia a fare ciò per cui è nato: insegnare calcio. Di lì a pochi anni, quei marinai avrebbero giocato nei più prestigiosi club del mondo.

Un bambino a bordo, più piccolo di un anno di Aurelio, intelligente più della media dei suoi coetanei, lo osserva e metabolizza, poi un giorno, vinti i timori, gli chiede: “Ma perchè se abbiamo quasi la stessa età tu hai già la barba e io no?”
“Tu sei curioso, questo farà di te un grande uomo, asseconda la tua curiosità, e poi metti in pratica ciò che hai imparato su questa nave. Qual è il tuo nome?”
“Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, e voglio avere anche io la barba”.
“Ah però, anche tu genitori stronzi eh? Da oggi sarai solo Socrates, e quando avrai la barba lasciala crescere, così che io ti possa riconoscere nel mondo”.

Degli anni brasiliani di Andreazzoli non si hanno cronache ufficiali, ma vangeli apocrifi e diari trafugati raccontano di lezioni di tattica alla fine delle quali giovani calciatori piangono abbracciandosi, di schemi per i calci piazzati intagliati nel legno dell’Amazzonia e spediti sino ai confini dello stato, di diagonali tramandate oralmente e a passi di capoeira di villaggio in villaggio.

Il tempo passa, Aurelio insegna, i risultati, inderogabilmente, arrivano: nel 1970, il Brasile è nuovamente campione del mondo. Sono passati sei anni, “O Màgico” è ormai un culto clandestino in tutto il paese, nessuno sa il suo nome, tutti lo amano, ma lui sa che il suo tempo lì è ormai concluso: è ora di nuove sfide, avrebbe compiuto la maggiore età in Europa.

Dal Brasile migra in Bolivia, dove apprende i segreti del fuorigioco d’altura e delle uscite dei portieri sudamericani gravemente prive di gravità; dalla Bolivia arriva in Colombia, dove lo precede la fama e lo aspettano i narcotrafficanti del cartello di Zuniga i quali, informati dai colleghi rapitori brasiliani, gli dicono Senor Andrea, facci vincere el mundial pure a nosotros e te riempimos d’oro e de coca. Ma Aurelio insegna calcio per vocazione e non per vil denaro, non accetta e viene sequestrato per 8 mesi e 8 giorni, fino al giorno in cui un giovane bimbo dalla criniera bizzarra messo a guardia del prigioniero, lo libera di nascosto. Carlos Valderrama, intervistato sulla vicenda anni e anni dopo, confesserà: “quell’uomo mi ha insegnato tutto. Un giorno, portandogli del guacamole per colazione, guardandomi nei baffi me lo spalmò in testa e mi disse: “solo con questo colore di capelli potrai farti notare su un campo di calcio. Di guacamole mi tinsi e da calciatore mi finsi. Senza di lui non sarei quello che sono”.

Nascosto in un viaggio di rifornimento a ritroso dei guerriglieri del cartello di Asprilla, Aurelio torna finalmente nel vecchio continente, in Olanda. Siamo nel 71, il mondo è dei giovani, ma i 18 anni di Aurelio sono come quelli dei cani, ognuno ne vale almeno sette.
Ruzzle Andreazzoli impara il fiammingo in tre settimane durante le quali compra marijuana da un bullo locale di nome Johan, campione del mondo di palleggi in corsa. Il carisma del massese è tale che il capellone locale improvvidamente lo sfida ma al quattordicesimo palleggio viene colpito da cacarella fulminante e molla. “Aurelio mi si avvicinò, e invece di umiliarmi mi accarezzò la testa proprio mentre ormai mi stavo per cacare addosso; tutto si bloccò, quel che era già liquido tornò solido, mi sentii di nuovo forte e invincibile, grazie a quell’uomo venuto dal nulla cui regalai tutto il fumo che avevo e il 14 sulle spalle per tutta la vita”.
Dopo qualche anno l’Olanda insegnerà calcio totale a tutto il mondo sfiorando la Coppa Rimet. Nessuno tra i commentatori internazionali capisce quale sia il ruolo giocato nell’imperiosa ascesa orange dal terzo fratello dei fratelli Van De Kerkhof. Nessuno tranne tutta l’Olanda. Che sa e saluta commossa Aurelio Van De Kerkhof, una notte d’inverno, dal porto di Rotterdam.

Ancora un porto, ancora una nave, ancora un incontro. Nel viaggio che conduce a Genova, Auruzzle incontra un uomo pensieroso, lo avvicina e inizia a parlargli. Le ore passano come minuti, dopo tanti anni è bello confrontarsi di nuovo con un italiano seppur bofonchiante, un allenatore per giunta, una brava persona, alla quale durante la conversazione insegna anche un gioco di carte: lo scopone scientifico. Aurelio, che non subisce il destino ma lo plasma con pacata determinazione, capisce che è ora di tornare a casa, di aiutare quell’uomo a coronare il sogno suo e di una nazione.
“Enzo, lavorerò con te”.
Bearzot scende dalla nave sorridendo, felice.
E’ la particella elementare del big bang di gioia che, qualche anno dopo, in una torrida notte di luglio si propagherà dalla Spagna all’Italia sancito dal triplice “Campioni del Mondo” che Nando Martellini aveva segnato su un taccuino qualche mese prima, su suggerimento di un uomo di Massa, durante un caffè.Sul volo che riporta la Nazionale a casa, nella storica partita a carte con il Presidente della Repubblica, Bearzot ricorda i consigli di quella notte sulla nave e vince. Pertini chiede al Ct chi gli abbia insegnato a giocare così, l’allenatore indica un uomo in fondo all’aereo. Da quel giorno tutti gli inquilini del Quirinale si sono avvalsi dei consigli di Aurelio Andreazzoli nelle ore più buie della nostra Repubblica.

Ombra dell’ennesimo trionfo, a 29 anni, Aurelio fa perdere le sue tracce. Mezzo mondo del calcio lo vorrebbe su una panchina, l’altro mezzo vorrebbe sapere chi è per riuscire almeno a proporglielo. Lui, vampiro della fama, fugge dalla luce dei riflettori e, semplicemente, svanisce.

Biografie non autorizzate hanno fantasticato ogni possibile scenario per questo buco di vent’anni, dal padre di famiglia al rivoluzionario accanto ai deboli di ogni parte del pianeta, dall’esilio all’ibernazione, dal viaggio nel tempo allo studio di nuove discipline, ipotesi, quest’ultima, che gode di maggiore credito. Ingegneria, elettronica, chimica, medicina: è plausibile immaginare che ognuno degli oggetti che popolano la nostra quotidianità debba dire grazie all’intelletto di un uomo che ha dedicato la sua vita agli altri.

In molti pensano che Bora Milutinovic, in realtà, altri non sia che Aurelio Andreazzoli sotto mentite spoglie, ma il Milutinovic smentisce più volte in tutte le lingue del mondo, ma soprattutto perde troppo spesso per essere Aurelio.

Evitato il disastro mondiale legato al rischio Millenium Bug, riconosciuta la paternità di un giovane nerd australiano di nome Julianassange che minaccia di rivelare al mondo i segreti della sua scomparsa, Andreazzoli entra nel nuovo millennio con un desiderio antico e sempre nuovo: insegnare calcio.

In una splendida giornata primaverile, durante uno dei suoi consueti giri solitari in spider, accuditi e curati come ogni giorno alcuni randagi malati e consegnati alla giustizia due evasi, Aurelio vede un uomo alle prese con una macchina in panne. Si ferma, lo aiuta, ovviamente individua il guasto e risolve.
“Piacere, Luciano. Grazie per avermi aiutato” tende la mano rincuorato l’automobilista.
“Ho appena iniziato ad aiutarti, non dovrai mai ringraziarmi, Luciano”.

E’ l’inizio di una nuova avventura, prima nella fredda Udine, poi, ritenutosi soddisfatto di aver portato una squadra in Champions League per la prima volta nella sua storia, a Roma.

Andreazzoli diventa rapidamente l’eminenza grigia dell’epopea spallettiana, ma le luci della ribalta, anche per motivi di riflessi, sono tutte per Luciano. Aurelio ne soffre, Taddei gli dedica la finta sbagliata ma non basta a risollevarne il morale.La sua autostima tocca livelli talmente bassi da soffrire la presenza del quasi omonimo Andreolli.
Aurelio s’incupisce, chiede espressamente alla società “o me o Andreolli””, viene accontentato ma si chiude lo stesso in se stesso trovando rifugio nelle letture del giovane Stalin, per meglio capire le quali comincia a studiare il cirillico.
E’ lì che si consuma la rottura del sodalizio con Luciano, che temendo le intuizioni del collega, decide di anticiparne le mosse lasciando lui e la Roma al suo destino per volare in Russia ad insegnare il calcio imparato da Aurelio.

Presi i giusti contatti con i mecenati e la mala locali, vinti un paio di scudetti, Luciano pensa al suo amico abbandonato a Trigoria e lo richiama a sé. “Ciao Aurelio, vieni da noi, si beve e si tromba, si tromba e si beve. Ho pure fatto comprare Hulk apposta per te!”. Aurelio sviene per la commozione e rifiuta la proposta di incontrare di nuovo colei che lo sverginò adolescente.

Aurelio diventa inconsapevolmente amico di ogni rosa, e prima che lui stesso se ne accorga è già il dipendente non giocatore di Trigoria con più anni di anzianità romanista alle spalle. Andreazzoli detto “la chioccia di marmo”, supera il periodo di mobbing con cui un vendicativo e pavido Ranieri lo vessa obbligandolo a comunicare a Totti e De Rossi di dover uscire tra un tempo e l’altro di un derby compromesso, e torna ufficialmente a fare capolino nello staff tecnico con il ruolo di “tempera gessi per le linee del campo B” nei primi mesi di gestione americana.Luis Enrique e Tonin Llorente ci mettono poco a capire che quell’uomo ha una marcia in più, motivo per cui lo nominano “responsabile delle marce delle mountain bike da fotografare e  postare su twitter”, emarginandolo dal golfo mistico delle decisioni tecniche.

Lui, che con le mani in mano non ci sa stare, passa il tempo presso la carrozzeria di famiglia di un nuovo amico.
"Roberto, io sono homo faber, tu l'hai capito e mi hai aiutato in questo momento difficile, mi ricorderò di te".
"Più che altro sssss..... ssss... sei manodopera gggg... gggg... gratis, però figurate, ssss... sss.. sei pure così saggio che è mpiacere Au... au... areu....".
“Aurelio”.
“Ecco, appunto”.

Insomma, tutti gli vogliono bene, tutti lo salutano, tutti lo omaggiano e gli portano rispetto, ma nessuno gli chiede espressamente di fare il suo vero lavoro: insegnare calcio.

Il destino dell’uomo sembra segnato, finché un giorno tutto cambia.James Pallotta, memore delle figure di merda di Tom Di Benedetto, chiede espressamente di imparare calcio, nel senso delle regole. Tutti si fingono malati, tutti tranne Aurelio, che comincia a impartire al manager doppie sedute di ripetizioni private.

Il miracolo avviene, Pallotta capisce e ordina: il prossimo allenatore della Roma sarà Aurelio Andreazzoli. Ma bisogna procedere a fari spenti, la preda è ghiotta, il mondo potrebbe ricordarsi all’improvviso di quell’uomo capace di cambiare la vita di milioni di persone per poi scomparire. Ci vuole cautela, averlo non sarà facile.

Ma quando una società è forte, unita e compatta, non c’è obiettivo che sia impossibile.

Zeman, aziendalista, fondamentalista e zemaniano fino all’autolesionismo, riesce a far peggio di Luis Enrique.
La rosa, stimata come migliore di quella dell’anno scorso, riesce a sembrare peggiore.
Sabatini e Baldini usano a cazzo parole con molte sillabe riuscendo a sembrare più storditi dell’anno precedente, ma lo fanno talmente bene che a un certo punto riesce credibile pure la manovra di depistaggio che porta Baldini a New York a simulare interesse per Guardiola.
Gli americani sembrano meno autorevoli di Pippo e Pluto, le peggio radio tornano a ruggire e gracchiare, i tifosi riprendono a insultarsi e a dividersi in orfani e vedove, sognatori e pragmatisti, vittime di complotti di palazzo e amanti di filologia romanza.
Kansas City 1927, infine, nun fa più ride.

L’operazione funziona, il mondo ci casca, è il momento di agire.

Uno scarno comunicato rivela la notizia che tutti aspettavamo: Aurelio Andreazzoli è il nuovo allenatore della Roma, finalmente.

Corete, scappate, ariva lo squadrone giallorosso.

Giallorosso.

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