Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

mercoledì 25 settembre 2013

Il pianto del Cigno (Roma-Lazio 2-0)

Kansas City 1927


C’è il sole, fa caldo, è estate. Dovemo vince.
Dovemo vince perché se ricomincia dala fine, perché dovemo giocà er derby come prima partita vera ao ssadio, subito, mo, perché così ha deciso un arido ma crudele algoritmo forgia calendari, e se da na parte s’attaccamo a ogni fior di zucca incontrato per la via pur de ritardà l’arivo in Sud, dall’altra semo consapevoli che pe esorcizzà quella cosa brutta accaduta de maggio, er modo miore è rigiocalla subito sta partita.

Allo stadio ce se ariva così, co poche certezze e ancora meno alternative. Oggi c’è un risultato solo. Se qualcuno te chiede “Perché?” evidentemente nell’ultimi 4 mesi non è stato a Roma. Noi ce semo stati. All’inizio è stata na tragedia. Poi è stato brutto. Poi è stato un ricordo bruttarello, sgradevole assai. Pensavamo che nce se potesse convive co sta cosa, che il 27 maggio sarebbe durato tutta la vita. E invece no. Piano piano, e soprattutto nelle ultime 3 settimane, se semo pure ricordati come se sorride, amo tirato fori la voce. Oggi, restando nel campo delle estrazioni e dell’abusato machismo da spogliatoio, sarebbe er caso de tirà fori le palle. Da sto punto de vista, da quello che s’è visto fino a mo, c’arivamo co la squadra giusta, co gli splendidi trentenni incazzati, coi giovani sotto schiaffo de quelli de cui sopra, co quelli na via de mezzo che a turno piano o danno gli schiaffi. Ce se ariva uniti. Ce se ariva primi. Ce se ariva carichi. Ce se ariva co nallenatore.

Eh, ma basterà? Non è che l’altre volte stavamo scarichi. Noi nce dormimo, nce magnamo, nce parlamo, noi semo quelli tra ssadio e realtà e poi abbiamo casse di cardioaspirina per pettinarci le coronarie. Ma loro, so loro che ce devono arivà carichi er giusto, né troppo né troppo poco. Già, loro, va a sapé come stanno.

Stanno come De Sanctis che imbocca pe primo a fa riscaldamento per il primo derby dela vita sua e je manca solo il microfono pe urlà “Siete caldi? Anchio!” e dici: ok, uno ce sta, è pronto. Poi li vedi tutti, e dici, dai ce stanno tutti, me pare che ce stanno no? Che dici, che te pare a te, chiedi a sconosciuti che però in quel momento so amici de na vita. Ce pare ce pare, ce pare a tutti. Mancano 10 minuti e stai nel pieno de un testa a testa de tabagismo hardcore co Sabatini, salivazione azzerata dalle sigarette e dal caldo e bibitaro troppo lontano, ma va bene, va bene tutto, nun bevemo così dopo non ce scappa la pipì.

Poi te arrivano le bandiere e gli stendardi in mano, e capisci che finalmente se sta a rifà na coreografia dopo tanto tempo, e lo prendi come un segnale buono, pure se in sto momento prenderesti come un segnale buono quarsiasi cosa, pure vedé Marzullo a bordo campo cor fratino dei raccattapalle.
“Il mio nome il simbolo della tua eterna sconfitta”, dice lo striscione che te sovrasta. Bello, bravi, retorico ma epico er giusto, naturale conseguenza e reazione ar tormentone dell’estate: la coppa in faccia. Come a dì, ognuno arzà in in faccia all’altro quello che ha, quello che può, quello che resta.

Pure perché er tormentone de la coppa arzata in faccia (la faccia nostra istituzionalizzata così ad ossessione per chi se la trova davanti da sempre), tormentone più utile pe gonfià er deltoide su no status de facebook o nessemmesse che pe movese nela vita reale, a lungo andare, come ogni tormentone, rischia de sembrà l’unica cosa che hai fatto in carriera. Comunque, la faccia nostra sta qua, segnata dala coppa e dala vita, ma sta qua, pronta pe altre pizze, avida de carezze.
Certo la nostra non è na coreografia bella come la bella perché bella idea de fa finta de sta a bevese na birra pe festeggià la coppinfaccia, ma loro so quelli che hanno portato le coreografie a Roma, c’hanno avuto 27 anni de più pe pensacce, non è che te vengono così ste idee, richiedono tempo, motivo per cui ner frattempo cantamo da soli.

E mentre provi a immaginatteli che entrano corendo tutti insieme a partita iniziata col rischio pure de fasse male sui gradoni, namico compagno de seggiolino e de tanto altro, ner mentre, sussurra piano: “ao, c’ho er formicolio ar braccio”. “Quale braccio?”, je chiedi come se avessi pronta na risposta tranquillizzante a seconda dela risposta sua. “Er sinistro, c’ho formicolio ar braccio sinistro”, insiste l’amico mentre il calcio d’inizio è ormai battuto. Lo guardi, lo tocchi, c’ha pure le mani sudate de freddo e jelo dici, optando pe la terapia d’urto: “beh, bono, se te pìa un coccolone oggi finisci su tutti i giornali, se te succede cor Sassuolo nte se ncula nessuno, va bene così, fidate, damme retta”.

Inforchi l’occhiali bizzarri, canti e sciarpi e pure er core tuo, mezzo giallo e mezzo rosso se fa più grosso e accelera la pompa, ma ar vicino non lo dici.

“Non me sembramo emozionati?”, rincara namico ale spalle. “Ma chi?” je chiedi mentre er formicolio de quello ar fianco tuo pare pià tutta la Curva. “Loro, i calciatori, che me frega de noi, so loro che non devono esse emozionati”.
Già, loro.
Loro che poi saremmo noi che saremmo loro, ma loro so loro, so altro da noi, so nentità meticcia fatta de romani e de padani e de brasiliani e de slavi e de ivoriani e de francesi e de marocchini e de olandesi occasionalmente depositaria de tutto er dna tuo.
Avranno capito la gravità de sta cosa? Loro saranno me? Anzi, saranno mejo de me che ancora non l’ho capito se oggi qui ce vojo sta oppure no? A rompe er flusso de coscienza ce pensa quel rockabilly de Leandro Castan detto Castagna, che intruppa un banale contrasto sula fascia, manda la palla in fallo laterale e se lacera le corde vocali pe urlà a fomento come se avesse appena segnato er gò decisivo all’urtimo minuto.
Quell’urlo ce pare quasi troppo, così, subito, ar primo secondo.
Nse capisce se sia fatto pe convince noi o se stesso.
In entrambi i casi sticazzi, ce piace.

Le schermaje so tipiche da derby, ma anche tipiche da Roma e forse, ma meno ce ne cale, da Lazio. So schermaje de na partita brutta ma menata il giusto da ambedue, senza no straccio de tiro in porta che sia uno, coi brividi per tutto il corpo solo perché te stai a giocà nantro pezzo de vita. La palla è mediamente sempre tra i piedi nostra ma senza gran costrutto, co gli avversi rigorosamente in undici dietro la palla a difende er gò de Lulic e perde tempo fin dal primo minuto (Marchetti ce metterà da subito na mesata per ogni rinvio, na cosa francamente incomprensibile pure ai più scaltri) sperando in una sgroppata der temuto Candreva. Candreva che a ogni rimessa laterale guadagnata, a ogni punizione rimediata, a ogni inquadratura regalata, traccheggia, s’atteggia, taccheggia e piacioneggia manco fosse Cristiano Ronaldo. Da onesto lavoratore del pallone, è diventato uomo derby da copertina, con tutti i pro e i contro del caso, o almeno così ce sembra a noi che temiamo tanto lui quanto Balzaretti che lo deve fermà.
Piacentini, tanto per citare a caso un altro che un gol in un derby l’ha segnato, rimase se stesso. Ma pure Castroman, guarda che te vojo dì. Candreva invece pare diventato Candreva, e mentre ne osservi la strana mutazione genetica, speri che a fine partita non se metta ar computer pe piassela co se stesso pe le solite note ragioni.

Intanto l’occasione più clamorosa, se tale se po definì, del primo inutile tempo, capita provocatoriamente sula fascetta de Gervinho. Perché Ercapitano così ha deciso: oggi er gò deve esse strano, atipico, anomalo, da aneddoto. Oggi er gò o deve fa uno che proprio non sa manco ndo sta de casa er gò. E niente, Ercapitano è fatto così, tignoso, cocciuto e visionario, ragion per cui a na certa disegna narcobaleno progettato per accucciare il pallone sul’attaccatura de capelli der Tendina, così ribattezzato da mpar de signori dela fila davanti, capaci de visioni pari a quelle Dercapitano.
Ma er Tendina, se sa, non è utilizzatore finale, ragion per cui il riporto de trecce je finisce sui denti, la fascetta je fa da collare, er sole jacceca la vista e scapoccià la palla in porta diventa problema insormontabile, occasione sciupata, quasi gò magnato.

L’amico, maledicendo l’estemporaneo ivoriano, nel mentre ha cambiato sintomo.
“C’ho le caviglie fredde”, confida ai più prima di alzarsi a fine primo tempo e correre verso un rapido check up fatto di scale e sguardi di gente che le caviglie non se le è afferrate, ma tanto bene non crede comunque di stare.

Se ricomincia e semo tutti gli stessi, tutti amo dato pe spacciato Floro Florenzi ma invece rientra in campo, ma è pe poco, 5 minuti e Gliaìc je dà er cambio, e cambia pure la partita. Pare lo chiamassero er Kakà dell’Est, ma noi dopo essece bruciati anni fa cor Thierry Henry de Valmontone non volemo esagerà. Er Cosetto dei Balcani se move con e senza palla, cambia sempre posizione, apre la difesa loro e soprattutto se cerca na cifra Corcapitano. Qualcuno, alle loro spalle, vede tutto e non riesce a tenesse un cecio come ar solito suo.

“Perdonami Ercapitano, noto una certa affinità tra te e coso, lì, Biondo Tevere, Zazzerello”
“Ma chi Gliaìc, ammazza è forte sto ragazzo, me piace, pare svejo”.
“AH...t..te piace dici eh? P...premesso che a me non me frega niente, ma così, pe curiosità, ma che ce trovi?”
“Ma che ne so, sarà sto vento dell’Est che se porta dietro, sta carica de genio e sregolatezza tipica de quella regione là”
“MA IO SO DU ANNI CHE TE PORTO STO VENTO E TU MANCO TE SPETTINI, MA CHE DEVO FA, DIMMELO!”
“Intanto non devi strillà che me dà fastidio, e poi è normale che du compagni de reparto se trovano mejo no?”
“Ah sì? Ah sì? E allora o sai che c’è? Allora io te lascio, me fidanzo cor Piovra, vabbene? Me farò cullà ner morbido abbraccio dei tentacoli de Kevin, va bene? Non me cercà, non me mandà messaggi su Facebook, dm su Twitter, notifiche su Whatsapp, non me fa squilli quando stai sotto casa che devo scende, è finita FI-NI-TA”
“Ah ok, peccato te volevo invità a cena stasera, vabbè, invito Adem”
“ASPETTA…”
“Gioca, te sta a arivà er pallone”.

Ma pe quanto sto pallone passi pe piedi buoni e decisi, sta partita nse sblocca. Anzi, rischia sì de sbloccasse, ma dalla parte sbajata. Prima è er capoccione de Ciani che ariva più alto de tutti e manda la capoccia de Castan a tirà dritto pe dritto sull’autopalo più alto, ricordando a tutti che le traverse nei derby so na giostra che gira. Poi er Tristo Mietitore Crucco riceve na palla de quelle che in passato ha seccato senza pietà da killer nato che è, ma a sto giro la coscia s’affloscia e il tiro se smoscia, ao e mica ce l’ha sur contratto che ce deve segnà sempre questo. Rimane che dopo tre partite e mezzo abbondanti, ancora non avemo visto De Sanctis fa na parata, soprattutto perché c’avemo du centrali che in confronto quello der tennis è laterale.

Poi pare arivato il Momento.
So 10 minuti che sradicamo palloni, sdrajamo arti, erigiamo tibie, scajamo cavije, recuperamo e ripartimo, piamo carci d’angolo, stamo lì, loro pure stanno lì, ce stanno dall’inizio della partita, ma pare che se stanno mpo a scioje, mo sarebbe proprio da fajelo sto cazzo de gò.
L’amico moribondo, esalando quello che pare l’ultimo dei sospiri e dei miraggi, improvviso sussurra cianotico: “ce pensà Fefè”.
Ercapitano intanto, che è contemporaneamente punta, esterno sinistro, esterno destro, mezzala, trequartista, viceallenatore in tribuna, scout e direttore der marketing, al momento attuale se trova sulla destra e scucchiaia na palla che pare pe nessuno. A noi, a voi, ai normali. Perché dall’altra parte sta a arivà come un treno baffuto quer Cigno biondo che c’ha fatto piagne miseria de calciomercato pe tutto il primo tempo. Core Barzaretti, ariva Barzaretti, tira bene Barzaretti, ma pia er palo porcaputtana Barzaretti. Gnente, Ercapitano smoccola, de fa fa sto gò strano a uno strano proprio non je riesce.
Mai na gioia. Mai na gioia collettiva, mai na gioia personale, mai niente, mai na favola de quelle che ce fanno le puntate de Sfide, mai na sorpresa, mai un premio, mai na mano de balsamo pe sto core infeltrito.

Angolo. Eh. Sai che ce famo co l’angolo, a dieci ce danno er pupazzetto.
Ma. Ma Ercapitano a vorte è de coccio proprio. S’encaponisce.
Perché Ercapitano c’ha un conto in sospeso cor calcio. Perché lui aveva proprio deciso che doveva segnà Barzaretti, o ar limite Gervinho, ma er calcio, quello, iriconoscente, vile, dopo tutto quello che ha ricevuto in ventanni de Totti, ancora ogni tanto arza la testa e se permette de contraddillo.
“Nino, me sa che non hai capito chi comanda” sussurra er 10 ar gioco più bello der mondo, e pe umiliallo definitivamente mira ar coperchio de trecce der Tendina che salta, struscia millimetrico de chierica d’avorio, e fa proseguì er pallone deviato er giusto pe arivà ndo deve arivà.
Er Cigno sbilenco, ito per inerzia a smadonnà sui tabelloni, tosto s’avvede der treno che ripassa, incredulo rincula in campo per svenire all’indietro e coordinasse come Panini comanda, acconcia la fetta occasionalmente e ostinatamente dritta, e a occhi chiusi scaraventa la chiesa al centro del villaggio, i nonni sule panchine, i regazzini sugli scivoli e la donzelletta che vien dalla campagna a far l’amore con tre civette sul comò.
E’ la morte der Cigno sbilenco, che pe un attimo infinito resuscita dritto e pieno de piume.
E’ gò.

Er Cigno realizza in un secondo che la storia lo ha baciato in bocca, che er prescelto pe cancellà er “mai” da “na gioia”a sto giro è lui, e allora butta la gobba, libera er capello e piagne correndo e correndo piagne, e se sbraccia come quelli che non sanno come esultà perché non segnano mai, che pe la gioia non c’è allenamento, non è che le lacrime le provi in doppia seduta er giovedì. E allora che po fa Barzaretti, può solo core, co mezza squadra che je dà le pizze in testa, co mezzo stadio che sgolandose je imprime a fuoco sula pelle la lettera scarlatta, la J de Jelavemofattafederì, e l’altro mezzo stadio che sta sepolto, ma vivo! madonna se è vivo! sotto er mezzo che lancia tonsille e amore verso er Cigno, il tutto mentre gli occhiali bizzarri volano a frantumasse e mille panze e culi e zinne e teste provano in ogni modo a fasse fisicamente male per eccesso di bene.
L’amico col formicolio e le caviglie fredde, ti chiederà a fine partita se sei stato tu ad abbracciallo tarmente forte da storceje la mandibola, mandibola che gli rimarrà bloccata per un po’ comunque non al punto da smette de urlà che sì, è gò, stamo sopra, er sortilegio pare infranto.

Certo, manca ancora na cifra. Quanti ne amo visti de sortilegi infranti così stronzi da ricomporsi un secondo dopo l’infrazione? Troppi.

E però er gò ce dà la forza, er coraggio e la fantasia, e una volta costretto l’avversario a uscì dar guscio der dì de coppa, comincia nordalia de discese sule fasce che vedono protagonisti più o meno tutti. Più o meno tutti, ma soprattutto uno: Gervinho, lo Scarnecchia nero.
Vero erede der fu cavallo pazzo, il giocatore più determinante della rosa nel rapporto tra presenza in campo e risultato sbloccato, corre come da proverbio, recupera e affonda, allunga e dribbla, ar dunque tira a cazzo de cane. Poco male, va bene così. Tanto che in una di queste sgroppate, Cana pia mira, rincorsa e trebbiatrice, ma quel che nasce rosso diretto si muta in giallo limone.
Rumoreggiamo manco fossimo l’Alto Commissariato per le Nazioni Unite chiamato a testimoniare una palese ingiustizia ai danni de un rifugiato politico con acconciatura discutibile.
Nel mentre, il senso di colpa s’accuccia comodo nel taschino di Rocchi.

Da casa ariva l’sms “Barzaretti sta a piagne da 10 minuti”, e tu non l’hai visto, non lo poi avé visto in uno stadio dove già c’hai culo se vedi er gò, ma lo sapevi, eri sicuro de avello già incamerato co gli occhi tuoi che stava a piagne. Ma non c’è tempo pe piagne e pe ride, non ancora quantomeno, che se sa che un giorno lontano lontano un avo nostro deve avé contratto dei buffi clamorosi co la sfiga, e il conto è ancora e sempre aperto. Occhio. Loro se so pe forza de cose sbloccati, provano finalmente a buttasse avanti, e inevitabilmente se aprono.

In una delle praterie, immune a ogni legge della fatica, Ercapitano se invola. Un ragazzo sovrappeso che pochi minuti fa è entrato co la maglia de Dias suda alla sola idea de coreje dietro un passo de più e lo stende, senza cattiveria, ma comunque in una situazione na cifra ar limite. Sarebbe giallo sicuro, ma in quel momento er senso de colpa sgorga tipo blob dar taschino gridando esausto “io non je la faccio più, ogni volta che vedo er Tendina me sento na merda, butta fori a questo pure se ncentra niente!”. Rocchi esegue, stanno in 10. Qualsiasi tifoseria la prenderebbe come na buona notizia, noi dopo la naturale esultanza, in silenzio, ma fortissimo, pensamo tutti a quanto potrà esse ancora più pesante se pareggiano.

E tra nassalto e nantro, tra na ragnatela de passaggi e na parata de Marchetti, tra no stop Dercapitano e na scoattata de Maicon, tra nanticipo de Benassià e nennesimo urlo der Castagna, tra un ululato a Cavanda (che non è Juan e non ha zittito col dito la Sud come fece il brasiliano con la Nord, ma se l’avesse fatto, nonostante quei capelli, avrebbe qui avuto la stima che riconoscemmo a Juan qualche derby fa), improvvisa ma prevista se delinea la crepa che po diventà crepaccio e facce crepà tutti per sempre, stavorta davero.
Un torello brasiliano de nome Ederson, subentrato ar profeta che tutto aveva previsto fuorché de non struscià palla, se ritrova pe na serie de coincidenze tipiche de quando devi morì de morte improvvisa e violenta, a tu per tu con De Sanctis e tutti i santi nostra.
E’ da poco passato er novantesimo.
Quell’uomo da solo sta per farci più male di Lulic.
Ma ad ogni beffa c’è un limite, e quel limite si chiama Daniele De Rossi da Ostia.

L’uomo che finì piangendo a maggio non vuole piangere più, non di rabbia e delusione.
Ma un conto è volere, un conto è poter fare, un conto è poter fare quel che si vuole, un conto è poter fare quel che si vuole in un derby da tifoso, un conto è rischiare tutto per buttarsi tra i piedi del sicario carioca e tarpargli lo sparo col tacco della scarpa.
L’occasionale aridità del calcio prevede che nessun tabellino riporterà mai quello che è a tutti gli effetti un altro gol. La distanza della Curva prevede che la reale entità del pericolo l’avremo presente solo a casa. La vicinanza del cuore al tacco salvatore ce fa capì che semo ancora vivi. Pe miracolo, ma vivi.

E quindi ormai ci siamo, noi e loro.
Ci siamo Noi che urliamo forte e Noi che in silenzio guardiamo terrorizzati quelli che urlano forte. C’è Luicapitano che esce tra gli applausi di qualche laziale (non è vero, non è successo, non succederà mai, ma in un mondo normale un giocatore di 37 anni che gioca così verrebbe acclamato da chiunque). C’è Borriello che entra e scapoccia su Marchetti il miglior cross della carriera del Supereroe Cigno ancora gonfio di superpoteri.
Chi non c’è più sono gli altri, che esausti si buttano a corpo morto sulla gimkana del fastidioso Gliaglic.

E’ rigore, al netto dei sensi di colpa.

Ercapitano non c’è più, libro cuore vorrebbe che sul dischetto si presentasse Capitan Tacchetto, e addirittura c’è chi in un frangente del genere riesce a lamentasse quando vede er pischello zazzeroso giungere le mano a preghiera e ottenere il premio di infliggere la massima punizione. “Sticazzi de chi tira, basta che segna!” ci troviamo ad argomentare cinici con i più sentimentali.
Pure perché Gliaglic è cecchino nell’animo, freddo pe definizione, algido al punto da segnare il gol della vittoria e non provare manco l’impulso de scartavetrà tabelloni e venì sotto la Curva. Va bene così, resta là giovinotto, er tuo l’hai fatto, mo facce fa er nostro.

Er nostro è rendese vagamente conto, mentre cercamo de slegà gambe e braccia dar Twister che s’è creato ar secondo gò, che de là, nella porta nostra se muove la rete ma nessuno esulta, quindi è successo qualcosa che non cambia il risultato, quindi er nostro, fondamentalmente, è gridà come ossessi che è finita, che avemo vinto, è finita, avemo vinto, è finita, avemo vinto.


Er nostro proprio nostro de noi due che scrivemo qua è abbracciasse e urlà che è finita, che avemo vinto, e che finalmente potemo scrive na cazzo de scheda de un derby vinto, e la cosa pe poco non ce fa piagne a mo’ de novelli Barzaretti. “A sto giro comincio io!” “No no, c’ho più voja de scrive io!”, rilanciamo mentre s’avviamo verso l’uscita, in un’inedita sfida uguale e contraria a tutte le schede che hanno preceduto questa. “Se capirai, già fanno 40 pagine per Roma-Chievo, a sto giro scrivono la Bibbia” sentenzia namico con fare effettivamente profetico.

Ma che ce voi fa, ce stanno giorni che vanno raccontati e ricordati. Questo è uno de quelli.
Perché sto derby se doveva vince, per forza, e l’abbiamo vinto.

Pure er derby de maggio andava vinto per forza, in quel momento più per forza de questo, e pure quello andava raccontato, lo sappiamo bene, tanto che se lo stamo ancora a raccontà. Ma de scrive de derby persi s’eravamo mpo rotti i cojoni (e l’abbiamo fatto, ah, se l’abbiamo fatto), e non essendo giornalisti ma tifosi, de scrive pe fa gode altri tifosi in quel momento non ce passava manco pe la testa.
Scrivemo quando potemo, scrivemo quando ce va, proprio come fanno i tifosi.
A quel derby, quello brutto de maggio, di tanto in tanto ce ripenseremo, ce dispiacerà, ma mo non ce sarà più il rischio de infettasse. La ferita è chiusa, è rimasto il segno, certi giorni la cicatrice tirerà un po’, ce verrà da grattassela e a quel punto ce lo ricorderemo e ce dispiacerà di nuovo, ma non fa più male.
Loro ce lo ricorderanno sempre, come se noi potessimo mai dimenticà, ma l’impressione col passare dei mesi è che dia molta più soddisfazione a loro che fastidio a noi. Non dimentichiamo niente, non funziona così, noi le cicatrici ce le teniamo tutte. So cicatrici de campo e de sport, niente de cui vergognasse.
Noi non vogliamo cancellà i brutti ricordi, perché è pure grazie a quelli che poi ste giornate so così belle, perché te liberano dar marcio che te sei masticato pe chissà quanto. Noi però voremmo fa de più, ne voremmo costruì de nuovi, e bellissimi.

A noi il passato non ce basta. Noi ce vogliamo abbraccià pure domani, e domani è cominciato domenica. Daje.



Nessun commento:

Posta un commento