La divisione delle curve romane imposta dal Prefetto Gabrielli è un episodio intimamente correlato alla gestione commissariale della città. Ne descrive il senso politico, quello di una lotta senza quartiere agli spazi di autogestione delle classi popolari. Pensare che il fatto non ci riguardi sarebbe reiterare l’errore storico di considerare la questione curve qualcosa di diverso, o di altro, o di avverso, alla questione delle classi subalterne e alle loro modalità d’espressione e di riproduzione. Magari nascondendosi dietro la scelta soggettiva di alcune curve di schierarsi apertamente a destra. Un po’ come abbandonare i quartieri popolari perché nel frattempo egemonizzati da un certo razzismo fascio-leghista. Uno dei tanti errori di prospettiva della sinistra radicale, che ha relegato non solo il calcio, ma ogni fenomeno dello sport professionistico a “questione capitalista”, in quanto tale da combattere, non riconoscendo lo sport – anche e soprattutto agonistico e professionistico – come collegato direttamente e storicamente alla natura umana fondata sulla cooperazione sociale. Un evento sociale occupato dalla valorizzazione capitalistica ma non per questo “in sé” capitalista. Non è però il momento per le questioni filosofiche, quanto capire perché la repressione del tifo organizzato sia un episodio particolare della più generale guerra alle classi subalterne. Da decenni lo stadio è il luogo dove determinate tecniche repressive vengono testate per poi essere generalizzate nei diversi contesti sociali. Quando parliamo di “tecniche repressive” non ci riferiamo ai tecnicismi repressivi, cioè l’utilizzo di questo o quello strumento particolare: l’uso di determinati lacrimogeni; la dinamica delle cariche delle forze dell’ordine; la speciale procedura amministrativa o giuridica; eccetera. C’è anche questo, ma il problema è più a monte. E’ la gestione del controllo sociale di un determinato ambiente e le tecniche di controllo in un contesto difficile e/o tendente all’autodeterminazione. E’ un dato di fatto che per lunghi anni, tra i ’70 e i ’90, le curve sono state dei veri e propri luoghi di aggregazione popolare autogestita. Al di là dell’oggetto in questione, cioè il tifo per una squadra, l’autorganizzazione in sé, cioè il mancato controllo della macchina giuridico-repressiva, ha posto più di un problema allo Stato quale attore titolare del monopolio della forza e della legge. Nelle curve questo monopolio era quantomeno mediato da una volontà popolare organizzata che aveva la forza di imporre un suo punto di vista e una sua modalità alternativa. Fin qui rimaniamo però nel campo tutto sommato dell’ovvio e della sociologia di classe. Dall’inizio degli anni Duemila il fenomeno ha subito la rivoluzione delle pay-tv. Come scrivevamo qualche tempo fa, il tifo organizzato è oggi “il nemico principale dei processi di valorizzazione economica dello spettacolo calcio. Se fino agli anni novanta una certa parte di profitto delle società proveniva ancora dai biglietti venduti al botteghino, da un ventennio a questa parte la quota economica derivante dallo stadio è venuta sempre meno, fino a diventare completamente irrilevante per la gestione finanziaria delle società di calcio. Il risultato è che una qualsiasi società potrebbe benissimo andare avanti economicamente senza tifosi allo stadio. Questo processo si scontra però con le necessità del pacchetto televisivo/mediatico, che prevede la copertura delle partite in quanto eventi sociali, che dunque hanno necessariamente bisogno di una cornice di pubblico tale da giustificare lo spropositato interesse che determina la concentrazione mediatica su questo sport. Ogni partita deve essere descritta come *evento*, come qualcosa che catalizza l’attenzione, i bisogni e i desideri di una fascia eterogenea e ampia della popolazione. Per questo, non è possibile una partita di calcio senza pubblico, perché perderebbe quella qualifica di evento sociale che ne determina la giustificazione ideologica tale da promuovere e vendere il prodotto commerciale, che in ultima analisi ha ancora bisogno di spettatori paganti il pacchetto televisivo. Queste due opposte tendenze hanno determinato il percorso di espulsione del tifoso (concetto appartenente al mondo dello stadio), sostituito con quello di spettatore (inerente invece alla dinamica del teatro o del cinema), molto più gestibile in termini di controllo sociale sul fenomeno calcistico e allo stesso tempo facente perfettamente funzioni di pubblico appassionato, almeno nella descrizione mediatica della partita di calcio. La telecamera che inquadra di sfuggita la tribuna descrive migliaia di persone interessate all’evento. L’apparenza è salva e i profitti pure, e tutto questo senza il problema sociale del contropotere rappresentato dal tifo organizzato e dalle sue curve.”
Non è il pubblico che si vuole colpire, e non c’è un processo voluto di svuotamento degli stadi. Il problema è normalizzare il tifo organizzato risiedente nelle curve. Questo il problema, e la divisione attuale promossa da Gabrielli una parte della soluzione. Il settore più popolare viene continuamente diviso, viene ostacolata una possibile unità d’intenti e di autorganizzazione non gestita dalle istituzioni (o dalle società di calcio, o dalle pay-tv); i tifosi organizzati colpiti da legislazione speciale applicata direttamente dalle Questure e non dalla Magistratura; non c’è alcuna possibile mediazione, perché non c’è riconoscimento: i tifosi organizzati non hanno diritto di rappresentanza. E’ il “pubblico” pagante il solo (e falso) interlocutore possibile. Il parallelo con quello che sta avvenendo nella società, a Roma in particolare, e che abbiamo visto all’opera recentemente con lo sgombero di Degage, dovrebbe risultare lampante. Gli inquilini e i militanti politici, così come i senza casa, i movimenti di lotta, eccetera, non vengono considerati interlocutori possibili. Nessuna mediazione è prevista, perché per essere posta in essere c’è la necessità anzitutto di un riconoscimento della controparte quale espressione di interessi contrapposti; e, in secondo luogo, della politica quale strumento per la mediazione. Il commissariamento della città, episodio più evidente di una pluridecennale lotta contro la “politica” in quanto tale, mascherata da lotta al “partitismo” prima, ai “partiti” dopo, mira ad escludere proprio la politica dalla gestione della cosa pubblica. In assenza di politica, le uniche forze in campo rimangono quelle economiche, il governo senza mediazioni degli attori economici. E questo vale nelle piazze quanto negli stadi. Da anni il movimento ultras è morto e sepolto sotto il peso delle proprie contraddizioni. Ma la loro lotta contro la stretta repressiva operata dal commissario Gabrielli è la nostra lotta, perché il tentativo di pacificazione sociale imposto dal modello commissariale è il medesimo, tanto nelle curve quanto nelle piazze. Se pacificazione ci deve essere, che sia almeno una pacificazione ingestibile.
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