Rhiannon Giddens, Allison Russell, Leyla McCalla and Amythyst Kiah |
Da tempo sono convinto che un importante antidoto contro la barbarie
razzista, antifemminista, fascista, classista che oggi ci sovrasta e opprime è
l’arte. Un espressione artistica, sia essa letteraria, teatrale,
cinematografica, pittorica o musicale, genera una grande varietà di sentimenti ed emozioni spesso
motori di rivendicazioni sociali, politiche e civili. La musica ha spesso accompagnato, o addirittura
suscitato, vere e proprie ribellioni dando forza a chi stava lottando. In tutti
le ere musicali, dal melodramma alla musica contemporanea, non sono mancati
compositori che hanno evocato e supportato rivolte. Se poi guardiamo al jazz, risulta evidente come la valenza ribelle nella rivendicazione di diritti negati sia la
genesi di tutto il linguaggio espressivo, anche se spesso intaccato dalla normalizzazione dalle ragioni del mercato.
Ancora oggi in
tutto il mondo, e in particolare in America, numerosi sono i musicisti guerrieri che si battono contro ineguaglianze, razzismi, pulsioni antifemministe e omofobe , non solo
nel jazz. “La commistione fra razzismo e sessismo devasta la donna afroamericana.
Usate, maltrattate, ignorate e
disprezzate le donne di colore sono
stata incredibilmente caparbie, coraggiose, rivoluzionarie. Esse storicamente hanno avuto
sempre da perdere e per questo sono
state le più fiere combattenti per la giustizia sociale”. Questo vera
rivendicazione di lotta è scritta da Rhiannon Giddends nelle note di copertina
dell’album “Songs of our native daughter”.
Un lavoro straordinario per la potenza che
emana , per il gruppo che lo esegue, e per lo stile contraddistinto da un sound particolare.
Ma cominciamo dall’inizio. Rhiannon Ghiddens, quarantaduenne
banjonista, violinista, fisarmonicista e
cantante del North Carolina, da sempre appassionata di musica celtica, un bel
giorno decide di mettere su un gruppo i Carolina
Choccolate Drops. Un ensemble molto particolare: ragazze e ragazzi di colore armati di banjo,
fisarmoniche,mandolini, chitarre e percussioni
che si mettono in testa di suonare una musica carica di echi
blues, suggestioni da New Orleans mischiate con un po’ di musica celtica e country folk.
Nonostante i brani parlassero
di discriminazione razziale e fossero molti duri con la società bianca borghese americana, il gruppo vinse un buon numero di premi. Ma la lotta
alla discriminazione razziale non è abbastanza. Non è solo una questione di colore della pelle, la violenza gretta colpisce donne, gender, gay, i
poveri in generale . Bisogna riunire
tutto in un’unica grande lotta.
La Ghiddens rimase colpita ed indignata da una scena del film Birth of a Nation (2016) del regista Nate Parker. Nella
sequenza in cui lo stupro della moglie dello schiavo Nat Turner scatena in lui
la voglia di ribellarsi, tanto da capeggiare la prima rivolta di massa di
schiavi afroamericani, la macchina da presa si concentra solo sullo stupratore,
ignorando le sofferenze della donna: “Ero
furiosa molte storie sono raccontate da un solo punto di vista, bisogna
invertire la prospettiva” disse Rhianna. Fu così che nacque il progetto “Our Native Daughter”.
Dopo aver passato molto tempo a studiare la storia degli schiavi afroamericani presso
il Smithsonian National Museum di
cultura e storia afroamericana a Washington, Rhiannon Giddens aveva acquisito il
materiale per incidere il disco. Ma ci volevano dei validi compagni di viaggio,
anzi valide compagne di viaggio, ovviamente di colore, ed esperte banjoniste.
Niente di meglio di ragazze come Leyla McCalla, già collaboratrice della
Giddens nei Carolina Choccolate Drops, una ragazza di origine haitiana che
attinge alla tradizione creola e cajun ma scrive spesso delle lotte
politico-sociali. Anche la cantante poli strumentista canadese Allison Russell
poteva a pieno titolo essere della partita, così come Amythyst Kia una potente
cantante di country blues del Tenessee.
Quattro musiciste, donne, nere, dall’abilità e dallo stile particolare e
virtuoso, lanciate banjo in resta contro tutte le discriminazioni,
costituiscono una macchina da guerra micidiale. Il cd “ Song of Our Native Daughter”si compone di reinterpretazioni di storie di schiavi e
menestrelli, storie personali di abusi sessuali, sofferenza e sopravvivenza. Raccontano di una straordinaria perseveranza
femminile rinnovata nel tempo e nei luoghi.
Testimonianze di crudeltà e
sofferenza si alternano a momenti luminosi di gioia e ironia ribelle. La storia di un’antenata
di Allison Russell venduta come schiava dalle coste del Ghana in America ha ispirato
il brano Quasheba Quasheba. La Russell canta di un donna violentata e picchiata
a cui vengono tolti i bambini, una donna non degna di ricevere amore. Il pezzo di apertura “Black Myself” è una
riproposizione di Amythyst Kia di una vecchia composizione di Side Hemphill contro la discriminazione razziale. La singolare
storia di Etta Baker, invece, rivive
nella traccia I Knew I Could
Fly. Etta Baker era una chitarrista blues ma nessuno lo sapeva perché il marito gli
aveva proibito di suonare fino a quando la donne non ebbe compiuto i 60 anni. Senza ogni ombra di dubbio il pezzo
più suggestivo è Mama’s Cryin’long, il drammatico racconto di una
bimba che assiste al linciaggio della madre colpevole di aver accoltellato il
suo stupratore. Particolare e potente l’esecuzione: un canto
condotto dalla Giddens, supportato da interventi corali liberi e fluidi
delle sue compagne, il tutto cadenzato
dal solo battito delle mani. Un
beat primordiale che evoca la volontà di
resistere attraverso l’orrore.
Ma la
devastante sofferenza di quelle donne non
supera mai la loro intima gioia la loro speranza di riscatto. “Oh tu metti le catene ai nostri piedi ma noi
stiamo ballando….. Ci rubi la lingua ma noi stiamo ballando….. Brown Girls
scendiamo in campo alziamo la voce e cantiamo” Queste le parole di
una strofa di “Moon Meets Sun”.
Alla ricerca delle storie si accompagna la
ricerca delle sonorità. Lo stile si può definire bluegrass, cioè una sorta di
country folk intimo, privo di forzature. Ma tale definizione è limitativa perché
negli arrangiamenti, scarni ma evocativi, entra molto di più : il blues, la musica celtica, il
folk delle origini - contraddistinto dall’uso del banjo tenore - e un po’
d’improvvisazione che non guasta mai.
Tutto in questo album è rivoluzionario.
Giddens, McCalla, Kia e Russell mostrano come la musica possa veramente
rendersi portatrice di lotte forti e
risolute. Ma bisogna conoscere le proprie radici culturali,
condividerle, contaminarle fino a gridare forte che la razza è una sola, quella
umana. Una razza in cui tutti hanno diritto ad una sopravvivenza dignitosa, donne, uomini,
gender, gay, poveri e meno poveri.
Un’operazione oggi complicata subissati come siamo da tanta istantanea
immondizia che trabocca dai social, dai media asserviti e anche, ahimè, da una parte dell’opinione pubblica che comunque non
è la maggioranza. La Giddens ha ragione quando dice che storicamente le donne
di colore non avendo avuto mai niente da perdere sono state le più fiere
combattenti per la giustizia sociale. E l’augurio è che tutti coloro che
storicamente non mai avuto, e non hanno, niente da perdere, anziché scannarsi l’un l’altro in una
guerra fra poveri, prendano coscienza della straordinaria possibilità che hanno
di lottare per la giustizia sociale e collaborino in questo conflitto contro
chi, invece, ha molto da perdere ma non ha paura di perderlo.
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