Ottobre è il mese del vino, o almeno una volta lo era, oggi in
nome del Dio mercato il succo d’uva
fermentato si fa tutto l’anno. Ma forse per la particolare vena di follia che porta il nettare di bacco, è fuori dubbio
che nel mese in cui l’inverno comincia a
bussare alle porte nascano dei geni creativi.
Non è un caso che
proprio in ottobre 100 anni fa nasceva uno dei più grandi musicisti della storia del jazz. Era l’11 ottobre del
1919 quando a Pittsburgh Pennsylvania veniva alla luce Art Blakey
uno dei più grandi batteristi, e band leader della storia del jazz.
Una
vita tormenta, non conobbe mai il suo vero padre e perse la madre a soli 5
mesi, fu allevato da una cugina materna molto religiosa appartenete ad una
famiglia avventista del settimo giorno. Operaio adolescente nelle acciaierie
Carnagie di Pittspburgh, vittima, come tutti i suoi compagni neri dei più
violenti episodi di razzismo. Nel 1942 un poliziotto gli sfonda a manganellate
un’arcata sopraccigliare, sostituita dai medici con una piastra metallica.
Unica colpa quella di aver reagito all’arresto perché sorpreso in macchina a
chiacchierare con un bianco musicista suo
compagno nell’orchestra di Fletcher
Henderson, formazione in cui allora militava. E si sa un nero se si mette a parlare nella macchina di un bianco commette
un reato.
Svezzato come operaio in fabbrica, maturato
sotto le manganellate della polizia, non c’è che dire un eccellente back ground
sociale , preciso per suonare jazz che è forse l’unica espressione culturale mondiale nata
dagli sfruttati. Blakey cresce a pianoforte e bibbia per poi dedicarsi
interamente a pelli e piatti.
Se il jazz è patrimonio culturale dell’Unesco,
Art Blakey è patrimonio incommensurabile del jazz. In mezzo secolo di carriera
con i suoi Jazz Massengers, ha percorso
in lungo ed il largo la vie della musica afroamericana, cresciuto nel mito di
batteristi come Sidney Catlett e soprattutto
di Chuck Web, swinga mirabilmente nell’orchestra
di Fletcher Henderson, uno che aveva tenuto a battesimo nei locali di New York,
un’imberbe Louis Armostrong.
All’inizio
degli anni ‘40 è in gestazione il fragore del Be Bop. I ragazzi usciti dall’orchestra
del cantante Bill Eckstine, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, oltre che Sarha
Vaughan, Dexter Gordon, Kenny Dorham, stanno mettendo a punto i loro voli
pindarici dentro il Minton’s . Non è un caso che il batterista dell’orchestra
di Eckstine sia proprio Art Blakey.
Con Partker, Gillespie, Miles Davis, anima
in "combo" le serate del Birdland. Ma è nel 1947 che con otto transfughi dell’orchestra di Eckstine, entra
in sala d’incisione per incidere il primo disco a nome "Art Blake’s Messangers",
non un gran che invero, ma da allora la leggenda di Blakey e dei suoi Messangeri
del Jazz entra nella storia, soprattutto quando nel 1952 incontra Horace Silver,
un pianista il cui stile si sposa bene con le idee del batterista di Pittsburgh.
E’ un periodo,quello dei ’50, in cui il Be Bop sta perdendo il suo smalto. Uno
stile frenetico in cui nel breve arco di 3 -4 minuti un musicista deve esprimere
tutta la sua vena creativa non è precisamente il massimo per l’industria
discografica .
Il nuovo stile “Hard Bop” di cui Blakey è uno degli inventori ,
dilata temporalmente le esecuzioni, i pezzi diventano più lunghi, il blues
torna, calmierando, per certi versi, i
bollenti spiriti delle infuocate improvvisazioni Be Bop. Ne scaturisce una musica che, pur non prescindendo dalle
corse sfrenate, rilascia suggestioni
emotive dall’elevata intesità.
Ancora roba per grandi musicisti e dai
Messengers di Blakey ne sono passati
tanti nel corso di decenni. Dai
trombettisti Kenny Dorham, Lee Morgan, Freddie Hubbard, fino agli ultimi Wynton
Marsalis, Wallece Rooney, ad una pletora di sassofonisti, Jackie Mc Lean,
Johnny Griffin, Wayne Shorter, Branford
Marsalis, e ancora pianisti del calibro di Bobby Timmons, Cedar Walton, Keith
Jarret, l’elenco è sterminato, non vado oltre, fatto sta che grazie
alla perizia nello scovare talenti il contributo di Blakey è andato oltre l’apporto
prettamente musicale del grande
batterista, contribuendo ad arricchire la scena jazzistica di grandi musicisti.
La massima dedizione ha
sempre contraddistinto la sua vita artistica, non si risparmiava mai, era
capace di suonare per ore con le sue bombe alla Philly Jo Jones che scaturivano
da un drumming coinvolgente, affascinante, che spingeva anche chi non era
addentro alla cose ritmiche a battere il piede.
Ne rimasi impressionato quando verso la metà degli anni 80’ (era l’83 o l’84) andai a vederlo in un concerto al Music Inn di
Roma. Dovevano esibirsi con lui i fratelli Marsalis: Wyton , tromba e Branford Sax, musicisti di
cui allora si dicevano mirabilie. In realtà apprezzammo altri giovani talentuosi
musicisti che nel frattempo li avevano sostituiti . Erano Terence Blanchard
alla tromba, Billie Pierce al tenore, con
loro Donald Harrison al sax alto, Johnny O’Neal al piano e Charles Fambrough al
basso. Il set fu straordinario. Dopo
quasi tre ore di musica i giovani jazzisti che lo accompagnavano erano esausti, lui ,Blakey dall’alto del suo
armamentario di pelli e cimbali continuava a deliziarci con una potenza ritmica
inusitata.
E’ proprio vero, ottobre è il mese degli effluvi creativi un po’ folli, e uno come Blakey non
poteva che nascere in una giornata di ottobre di cento anni fa.
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