In oltre 60 piazze italiane si è espressa in questi giorni
l’indignazione di famiglie, lavoratrici e lavoratori della scuola contro le
linee guida del governo in merito alla riapertura delle scuole a settembre, per
l’inizio del nuovo anno scolastico. A fronte di una situazione che ha visto
pregiudicati per cinque mesi il diritto all’istruzione e alla socialità di otto
milioni di minorenni, nessuno si sarebbe aspettato una tale dimostrazione di
indifferenza e una totale assenza di soluzione di continuità.
Non
è qui in discussione la necessità o meno dei provvedimenti presi dall’inizio di
marzo ad oggi (sui quali i pareri sono diversi), ma la costante rimozione dei
bisogni dei bambini, dei giovani e delle loro famiglie, conculcati dentro il
lockdown e non riconosciuti come priorità neppure ora che la fase critica
dell’epidemia appare finalmente superata.
A
fronte della messa a disposizione di risorse pubbliche per centinaia di
miliardi per il mondo delle imprese, sulla riapertura delle scuole -che vuol
dire la riammissione simbolica e materiale dei bambini nella società- si fanno
dichiarazioni fantasmagoriche a cui non seguono piani né risorse, personale né
assunzioni di responsabilità.
Analogo
scenario riguarda la sanità, rispetto alla quale, l’unico passo, fatto dopo
decenni di misconoscimento, è stata la distribuzione della patente di eroi a
medici e infermieri senza nessuna modifica sostanziale del quadro complessivo
del loro lavoro e della salute dei cittadini (d’altronde, avete mai visto
Superman o Wonder Woman firmare un contratto di lavoro?)
Al contrario, con l’abbuono alle imprese della rata Irap di giugno, si è fatto
un ulteriore passo di definanziamento della sanità per 4 miliardi in piena
pandemia!
Più
che molti discorsi, basta un semplice passaggio del piano Colao di rilancio del
paese per comprendere dove risiedano le priorità: in quel piano si dice che
vanno messi a disposizione subito 54 miliardi per nuove autostrade e 113
miliardi per l’alta velocità ferroviaria, mentre per quanto riguarda i fondi
alla scuola e alla sanità si propone di procedere ricorrendo ai «social impact
bond», come innovativa (?) forma di finanziamento pubblico-privato.
E
mentre si attendono miliardi dall’Unione europea – per ora tutti ipotetici, a
debito e con condizionalità – piovono soldi sul sistema bancario, che, non più
tardi di una settimana fa, ha ricevuto dalla Bce qualcosa come 1.308 miliardi
di euro a tasso negativo (!), 178 dei quali finiti a cinque banche italiane
(94,3 a Unicredit, 35,8 a Intesa San Paolo, 22 a Banco Bpm, 14 a Bper e 12 a
Ubibanca).
Naturalmente, accompagnati dall’auspicio (si sa, alle banche non si danno gli
ordini) che questi soldi si riversino nell’economia reale favorendo il credito
alle famiglie e alle piccole imprese, nonostante già il Quantitative Easing
2015-2018 abbia dimostrato come questo avvenga solo molto parzialmente (27%), e
lo stesso Decreto Rilancio del governo (soldi alle banche per finanziare le
famiglie) sia al palo dopo meno di un mese.
La
realtà è che, accantonata ogni retorica di unità nazionale e del «siamo tutti
sulla stessa barca» dei primi giorni di epidemia, ceti alti, lobby bancarie e
finanziarie e grandi imprese stanno utilizzando la crisi per accelerare il
drenaggio della ricchezza collettiva e brandiscono il «niente sarà più come
prima», non più come speranza collettiva di un futuro diverso, bensì come
minaccia per disciplinare compiutamente la società.
Che
sia giunto il momento, anche per chi in questi mesi si è fatto irretire da
appelli in senso contrario, di disturbare il manovratore, opponendo
all’idelogia del profitto individuale la costruzione collettiva di una società
della cura?
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