L’articolo che
segue probabilmente non sarà gradito all’intellighenzia frusinate
e neanche a buona parte della
cittadinanza, ma ritengo vada svelato un aspetto non proprio edificante di un mostro sacro della nostra
storia culturale e creativa.
Mi riferisco ad Anton Giulio Bragaglia, spregiudicato
e poliedrico fotograto, regista di teatro e cinema, scrittore e giornalista. Come è noto
soprattutto in città, l’illustre nostro
concittadino ( nacque a Frosinone l’11 febbraio del 1890), fu uno dei primi
adepti del movimento futurista, archeologo, ma soprattutto culture
dell’immagine, o meglio della combinazioni di immagini con giochi di luce, e colori , fu un pioniere della fotodinamica. Fu anche
instancabile “agitatore culturale” animatore di discussioni sull’arte e sulla
politica. Direttore di riviste, fondò il “Teatro degli Indipendenti” nel 1923.
Teatro sperimentale, ma anche sede di spettacolini più leggeri con l’esibizione
di ballerine. avanspettacolo bello e buono, a cui assistevano in
incognito, re, ministri, principi e ambasciatori Diresse in alcune piece teatrali attrici importanti del calibro di Anna Magnani. La storia di
Anton Giulio Bragaglia, insomma è nota a quasi tutti i ciociari e non sto
qui a ripeterla. Bragaglia si è occupato di tutto lo scibile culturale, ma
avrebbe fatto meglio a tralasciare la musica jazz.
Nel 1929 infatti il regista si cimentò nella redazione di una storia del
jazz in Italia. In quell’anno, a sua firma, per le edizioni Corbaccio, uscì “Jazz Band” il
titolo potrebbe indurre il lettore a credere che la pubblicazione fosse di esaltazione della musica jazz,
in realtà li libro, smaccatamente reazionario e razzista, è fortemente denigratorio verso questa espressione musicale.
In verità la musica di cui Bragaglia si occupa non è jazz , quello, per intenderci, diretta emanazione di New Orleans e di New
York, ma è ciò che si ascoltava
nei night club più esclusivi , il Casanova, il Quirinetta, l’Hagy. All’epoca il jazz era solo musica da ballo, tutte
le orchestre, e furono molte, che approdarono in Europa dagli Stati Uniti e quello che si formarono in
Italia, con valenti musicisti, accompagnavano spettacoli di ballerini di colore.
Era considerato jazz quello dell’orchestra
commerciale di Paul Whiteman uno dei
tanti a cui fu attribuita la paternità dal jazz. Bix Beiderbecke, Joe Venuti, Eddie Lang, Jimmy e Tommy Dorsey, e tutti gli altri
improvvisatori di New York erano artisti
sconosciuti ai più, anche per la mancanza di incisioni che arrivarono in Italia
a partire dal 1926.
Solo i musicisti
italiani delle orchestre ingaggiate nei grandi transatlantici come il Conte
Grande o il Conte Biancamano che giungevano a New York da Genova, poterono
conoscere i jazzisti americani e portare in Italia i loro dischi. Piero Rizza,
Carlo Benzi, Potito Simone e tanti altri straordinari jazz man italiani grazie alle traversate su queste grandi
navi poterono conoscere e divulgare il jazz improvvisato.
All’epoca del libro
di Bragaglia è possibile che i jazzisti improvvisatori, non avessero mai messo
piede e suonato nei locali descritti dal regista. Nel 1928 furoreggiava in Europa e in Italia il mito di Josephine Baker, icona indigesta al
regime e quindi da distruggere.
Ma leggiamo qualche passo di “jazz
club”
Nel capitolo Prodezze
del Jazz Bragaglia scrive:
Musica ammattita e
gambe storte, suoni fischianti, arrugginiti, urli di sirene e crepitare di motori,
rauchi e assordanti, cui corrisponde la frenesia di un gestire corbellone e minchionato,
avventuroso e truffaldino.
E ancora nel capitolo Danze
del Tempo Fascista si legge:
Le pose dello
snobismo anglo-sassone, l’americanismo e
le diavolerie dei negri, con il pariginismo
tradizionale, tengono tutt’ora il campo con le orchestre pazze. Nel
tempo fascista, di conseguenza, la
degenerazione che offusca ancora una volta il pregio estetico e pedagogico
della danza, non poteva essere tollerata. Ed oggi, invocando danze all’italiana,
sottinteso sarà che i piedi si muovono in modo urbano, con eleganza e
signorilità senza imbestialirsi in nessun modo, neanche imitando le bestie.
Il capitolo Negrerie è uno dei più odiosi e razzisti, scrive Bragaglia:
Dovrebbe esistere
anche un “genio negro” (…), Ma questa è una grave panzana, imperdonabile e
odiosa. Come uomini , ci sia rispetto umano fra tutti, ma poi che debbano
venire i negri a insegnarci cosa è arte o magari semplicemente cosa si deve
fare come divertimento , questa è difficilmente accettata, se non già
unanimemente respinta e deprecata. I sollazzi, i giochi e trattenimenti
nostrani debbono respirare ben più alto. E nel music-hall, nel caffè-concerto,
nel teatro d’attrazione o varietà, nei circhi
e nelle rappresentazioni di ogni sorta , la negreria va respinta in nome
del buon senso per lo meno. Le solite Black-Follies ci ammorbano le sale da spettacoli ci avviliscono senza
parere nell’atmosfera isteropilettoide
che vengono a costruire, con i modi selvaggi prevalenti. E’ ora di
piantarla colla pretesa di raddrizzare le
gambe ai cani, cani-danzatori in ispecie; e in particolare di colore nero….
Al netto del giudizio artistico che è patrimonio soggettivo
di ognuno, l’acrimonia con cui Bragaglia inserisce la questione razziale in una
trattazione di valutazione artistica è
sconcertante. In realtà, come suggerisce lo storico del jazz italiano Adriano Mazzoletti, le ragioni che spinsero
Bragaglia a scrivere un libro denigratorio del jazz furono tutte orientate alla
carriera politica. Grazia a questo libro il partito fascista iniziò a
considerare politicametne Anton Giulio Bragaglia. Poco
tempo dopo l’uscita di jazz club, il regista scrittore frusinate entrò a far
parte del Consiglio Nazionale (segretario del Comitato Nazionale sceno-tecnici in seno alla
Confederazione fascista professionisti e
tecnici). In seguito il partito fascista gli avrebbe affidato la direzione
del nuovo teatro della Arti, creato a Roma nel palazzo della Confederazione
stessa.
Sicuramente Anton Giulio Bragaglia è stato un grande artista, ma
denigrare in senso reazionario e razzista una espressione musicale e artistica
per meri motivi di promozione politica è francamente squallido. Per cui , nonostante l’indignazione che quanto sto ’ per scrivere susciterà presso
gli studenti del Liceo Artistico di Frosinone, istituto a intitolato a
Bragaglia, ritengo che un personaggio tale, fascista fino alle midolla e in
mala fede, non possa dare il nome ad una scuola dalla storia così importante
per la nostra città. Personalmente avrei
evitato, come hanno fatto gli studenti dell’artistico di difendere così a spada tratta colui che da il nome alla
loro scuola. Va bene il giudizio artistico ma esiste anche una eredità storica e morale da rispettare.
Articolo molto interessante, che restituisce ombre piuttosto inquietanti di un personaggio entrato, anche giustamente, nella mitografia del territorio.
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