Entra
nel centro del suono spontaneo che vibra di sé stesso come nel suono continuo
di una cascata oppure, mettendo le dita nelle orecchie, intendi il suono dei
suoni e raggiungi Brahman, l’immensità.
Vijnanabhairava Tantra, 38
GREEN MAN Monk e Trane al Five Spot. Era il ’57. Le serate più belle della mia
vita. Quell’anno tenevo il mondo appeso a un filo, come dice la canzone, e
stavo seduto su un arcobaleno. Il mio lavoro mi piaceva, mi ero appena sposato,
stavo già a Brooklyn ma di sera prendevo la metro per il Village o la Lower
East Side. Cominciava il “disgelo”, dopo anni di musica liscia, liscia da
sciacquarsi le palle. Io venivo dal Sud, cresciuto a cori di chiesa e Rhythm
& Blues, mi piacevano quei sassofonisti vestiti di rosso che partivano con
l’assolo, si chinavano all’indietro che quasi si sdraiavano e facevano muggire lo strumento, muuuuuuuu, lo facevano ragliare, braaaaaaa, anche tre o quattro battute di fila, un suono lungo e
rauco e denso che lo sentivi nel basso ventre. Lo honking. Figurarsi se potevo digerirlo, il cool. Ancora ancora il “nonetto” di Miles, ma Lennie Tristano, la
roba della West Coast, Chet Baker... Dave Brubeck! Roba da bianchi, non vedevo
l'ora che finisse.
ROWDY-DOW Alla fine degli anni Cinquanta arrivò la new thing, che per noi fu la liberazione
dei suoni. Lo chiamavano anche “free jazz”,
titolo di quell’album di Ornette Coleman, ma le etichette eran roba da
bianchi. Noi criticavamo pure la parola “jazz”, per noi era “la musica”, punto.
Ornette arriva in città col suo sax di plastica, e di fianco a lui Don Cherry
con quella tromba ridicola, una Conn del 1889 che pare finita sotto un treno, i tasti sempre sul punto di schizzare
via.
Già da un po’ tipi come Cecil Taylor facevano
casino, ma fu il quartetto di Ornette al Five Spot a sturarci le orecchie.
Sembrava una rissa tra cani, anzi, gli istanti che precedono una rissa tra
cani, li senti da dietro l’angolo e t’immagini la scena, i padroni che tirano i
guinzagli e chiamano i cani, e questi due che azzannano l’aria, cercano di
avventarsi l’uno sull’altro, strattonano, ringhiano, latrano, sbavano, e le
voci dei padroni che ordinano di smetterla, fanno lavorare i bicipiti, parlano
ai cani manco fossero cristiani ma in fondo non ci credono, recitano, la verità
è che sono fieri della forza e dei coglioni delle loro bestie, ridono sotto i
baffi…
GREEN MAN Dopo il cool
vennero i nuovi boppers, quelli “duri”, e loro non avevano problemi, lo
facevano lo honking, anche Trane, che
il Rhythm & Blues l’aveva suonato. I muggiti di Trane spazzarono via il
jazz fighetto della West Coast, gente come Stan Getz, Shorty Rogers... Per me
quello è il suono della Creazione. E’ primordiale.
Se Dio c’è, me lo figuro come uno honker vecchia
maniera, tipo Bull Moose Jackson,
Eddie Chamblee, Jim Conley, Wild Bill Moore... Ne sono certo, ha un completo
bianco splendente e suona un sax tenore.
ROWDY-DOW Anzi, è probabile che lo facciano apposta, che
passino vicino a un altro cane ogni volta che è possibile, per divertirsi. Ecco
com'era la nuova musica all’inizio: il sax di Ornette e la tromba di Don Cherry
erano i cani, loro tenevano la musica al guinzaglio ma lasciavano che i latrati
la invadessero, la trasformassero da
cima a fondo. Se facevi attenzione, là dentro ci sentivi il bop, sentivi Bird e
Diz, Monk e Miles, e più indietro sentivi Duke, e Satchmo e Jelly Roll con
tutta Basin Street, e pure Buddy Bolden, che nessuno l’ha mai sentito suonare,
e gli spirituals, il gospel delle
chiese battiste, il blues del Delta, il patto col diavolo di Robert Johnson,
gli schizzi di saliva dall'armonica di Sonny Boy... Ancora più indietro e ancora più dentro sentivi la schiavitù,
qualcosa di interrotto, l’ultima rullata di tamburo prima che il tuo antenato
fosse preso e caricato su una nave, sentivi i neri incazzati…
BLOOD WILL TELL Incazzati lo erano di sicuro: il palco del Five Spot era proprio di
fronte al cesso, quasi sempre intasato. Difficile ignorare il tanfo di merda, man.
GREEN MAN Il ‘57, l’anno del “risveglio spirituale” di
Trane. Miles lo caccia dal gruppo perché è fatto e imbambolato tutto il tempo.
Trane decide di darsi una regolata: smette di bucarsi da un momento all'altro,
si fa il “tacchino freddo” a Philadelphia chiuso a chiave in una stanza. Poi trasferisce la famiglia a New York, incide
con Monk e comincia a suonare con lui al Five Spot. Le prime sere fatica, è
ancora messo male, ma pian piano migliora, migliora ancora e alla fine, cazzo... Alla fine è indescrivibile.
Monk era Michelangelo, scolpiva l’aria,
toglieva tutto ciò che non somigliava alla musica che aveva in testa. Quegli
accordi che non capivi cos'erano, le note che sembravano giocare a nascondino e
sbucare da dietro il pianoforte per sorprendersi a vicenda, e Trane capiva, con gli assolo terminava le
sculture, faceva spuntare un braccio, una gamba. Una specie di sonar, le note
rimbalzavano su oggetti invisibili e ne rivelavano i contorni. La sera mi
perdevo in quei miraggi, dormivo al massimo tre ore per notte ma stavo da dio,
mi mettevo a lavorare e non perdevo un colpo, cazzo, il mondo appeso a un filo.
Facevo il giardiniere. Mi occupavo della
manutenzione di parchi e giardini a Brooklyn, lavoravo anche al Green-Wood
Cemetery. Mentre curavo le siepi del Prospect Park o potavo rami al camposanto, canticchiavo Mysterioso, e tra le foglie i parocchetti monaci cantavano con me.
ROWDY-DOW Dentro la nostra musica c'erano troppe cose per
un solo paio d’orecchie. Il mare che separa dall’Africa, conchiglia
sull’orecchio e sentirla là in fondo, l’Africa, e i cats in the street diventano leoni, pantere, ghepardi che mangiano
il jazz dei bianchi, carogna con la gola squarciata riversa nella savana. Cecil
Taylor, grosso macaco, pestava il
pianoforte con le quattro mani. Albert Ayler, tromba d’aria che investiva un
funerale di New Orleans. Quando ci si buttò Trane i cats lo seguirono e lui si spinse avanti, e spinse tutto più avanti.
LET'S-PLAY-A-GAME Ho cambiato nome tante volte. Sono stato
"Africano" e "negro", che in spagnolo vuol dire
"nero". Poi sono stato "di colore". Negli anni Venti sono
tornato "negro" ma ci ho messo la maiuscola. "Negro". Però
i bianchi non lo pronunciavano "nee-grow" ma "nigrah", così somigliava troppo a
"nigger" e dovevo aspettare la seconda sillaba per capire se mi
stavano insultando. Del resto, "nigger" era una storpiatura di
"negro". Come lo traducono "nigger" in italiano?
"Negro". E "negro" come lo traducono? Lo vedi che è un gran
casino? A metà degli anni Sessanta sono diventato "nero": "Say
it loud, I'm black and I'm proud!" In spagnolo lo ero sempre stato, ma in
inglese faceva la differenza. Accettare il nero della pelle e dei capelli,
superare il complesso d'inferiorità: "Nero è bello". Delle volte,
però, mi chiamavo "Afroamericano" o "Africano Americano". I
bianchi non lo sapevano più, come dovevano chiamarmi. A parte
"nigger", è chiaro. Neanche i fratelli, manco loro sapevano bene come
chiamarsi: i vecchi erano "di colore", quelli di mezza età o del ceto
medio erano "Negri", i più giovani e militanti erano "neri"
o "Afromericani". Nel frattempo, però, tra di noi abbiamo continuato
a chiamarci "nigger", anzi "nigga", ma non è come quando lo
dice un bianco. O meglio, a volte sì e a volte no. E' un gran casino, uomo, te
l'ho detto.
Oggi c'è chi mi chiama "Africano della diaspora",
o "Africano" e basta. Dopo quattrocento anni, il cerchio si è chiuso.
GREEN MAN Trane suonava ogni nota di un blues come se Dio
la portasse in palmo di mano, e pensa che i critici bianchi - e i critici erano
tutti bianchi - lo definivano “anti-jazz”.
Insieme a Miles s’era già lanciato nelle improvvisazioni modali, alla Kind of Blue, improvvisavano liberi
dalle solite progressioni di accordi, liberi,
poi Trane formò il quartetto “classico”: lui al sax, McCoy Tyner al piano,
Jimmy Garrison al basso, Elvin Jones alla batteria. La più grande macchina da
palco che ho mai visto in azione. Alla fine scavalcò
le note, dal suo sax venivano fuori nitriti ululati squittìi muggiti
barriti guaiti, Madre Natura si scrollava di dosso la musica dei bianchi con le
loro carinerie di merda. La nostra musica era i versi dei babbuini e delle
bertucce, era il gibbone che urla appeso al ramo. Il jazz libero.
LET'S-PLAY-A-GAME Il nero americano si vergognava dell'Africa.
L'Africa era lo sfondo dei film di Tarzan, la terra dei "selvaggi".
Tarzan si tuffava nel fiume e usciva che era ancora pettinato. La mia gente
l’avevano strappata all'Africa con la forza, non la conosceva più, la odiava
senza saperne niente. Come diceva Malcolm: "non puoi odiare le radici
senza odiare l'albero". Ci volle qualche decennio per cambiare le cose.
Marcus Garvey piantò il seme predicando il ritorno in Africa. Dagli anni Trenta
sempre più neri si convertirono all'Islam, religione "più africana".
Nel jazz entrarono sempre più richiami all'Africa, finché non si sviluppò il
nazionalismo nero. Intanto l'immagine dell'Africa cambiava da così a così, una
rivoluzione dietro l'altra, il gigante si risvegliava e si scrollava di dosso
l'Europa. I capi dei nuovi stati africani: Jomo Kenyatta, Ahmed Sékou Touré,
Kwame Nkrumah... L'Africa, terra di martiri come Lumumba, rivoluzionari come
Mandela... I neri americani lessero I
dannati della terra di Fanon. Diceva: solo la rivolta e la violenza
guariscono l'anima del colonizzato, ed era della nostra anima che parlava.
La vedi la copertina di Life appesa dietro lo scrittoio? E' del '60. La foto fu scattata a
Leopoldville, Congo Belga. Re Baldovino in solenne processione, vestito di
immacolato bianco su una
decapottabile nera. Uno studente
africano si fa avanti e gli strappa di mano la spada cerimoniale. Se mai
un'immagine ha avuto valore simbolico...
continua.....
video scelti da Luciano Granieri
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