Tomaso Montanari.
Il realismo. Alla sinistra viene rimproverata soprattutto la mancanza di realismo.
I commentatori di quasi tutti i giornali ripetono in coro che una Sinistra che non abbia come obiettivo un’alleanza con il Pd non tiene conto della realtà. Ed è questa anche la tesi di Giuliano Pisapia, aspirante federatore di quella stessa Sinistra: sempre in nome del realismo.
In nome del realismo bisognava votare Sì al referendum costituzionale.
In nome del realismo oggi si invoca una legge maggioritaria che assicuri la ‘governabilità’.
In nome del realismo si continua a votare la fiducia al governo di Minniti. Anche se si restituisce contemporaneamente la tessera del partito di quest’ultimo, per un’insormontabile questione di diritti umani (così Gad Lerner).
In nome del realismo si continua a parlare di centrosinistra.
Ma che significa, davvero, realismo? Significa andare al governo. Ma per fare che cosa? Ecco, qua il realismo finisce: si vedrà. Per fare quello che si riesce a fare. Ma intanto, ecco, saremo al governo.
Una delle ragioni principali per cui metà del Paese non vota più è che la politica non riesce a cambiare la vita della gente: con un’eccezione importante, perché cambia la vita della gente che fa politica. È in questa confusione (non troppo innocente) tra mezzi e fini che la politica si è persa.
Per uscirne bisogna provare a ridefinire il ‘realismo’. Dare a questa parola un nuovo significato: per me realismo significa capacità di cambiare la realtà. Costruire le condizioni per arrivare al governo con le idee e le forze sufficienti per cambiare il Paese.
E allora il realismo è stato dire no ad una riforma costituzionale che avrebbe fatto sparire lo spazio stesso del conflitto sociale, che è l’unico motore verso una società più giusta.
E oggi il realismo impone un sistema elettorale proporzionale: perché senza rappresentare tutti (e soprattutto chi non ha altra rappresentanza) il Parlamento non avrà la forza, e prima ancora il desiderio, di concepire un vero progetto di Paese: o meglio di decidere come attuare il grande progetto inattuato, che è la nostra amata Costituzione.
Oggi il realismo impone di non votare la fiducia ad un governo che fa il contrario di ciò che vorremmo proporre agli elettori domani.
Oggi il realismo impone di parlare di sinistra, e non di centrosinistra. Perché alle elezioni ci saranno le Destre, il Pd e i Cinquestelle. Ciascuno dei quali correrà senza annunciare alleanze, ma cercando di illustrare il proprio profilo (e il problema sarà, spesso, distinguerli quei tre profili). Sarebbe davvero un suicidio se la Sinistra fosse l’unico polo a dichiarare se stessa insufficiente, monca e dimezzata fin dal nome, che invocherebbe un necessario (e moderante) completamento: che poi sarebbe il Pd (quello di cui si strappa la tessera, e giustamente, per questione di diritti umani).
Il realismo è costruire una sinistra nuova, quella che ancora non c’è: non una somma di partitini, ma una alleanza tra tutte e tutti coloro che vogliono cambiare lo stato delle cose, in direzione della Costituzione. Come farlo? Per esempio indicendo una grande assemblea sovrana, eletta con il proporzionale e con liste aperte a singoli cittadini, tesserati o meno (non una federazione di partiti). Un’assemblea che decida il programma, il nome e che scelga una leadership plurale e diversa, senza vincoli e ruoli predefiniti.
E con questa sinistra che ancora non c’è sarebbe realistico, sì, pensare di andare al governo: non alleandosi con chi ha un altro progetto di Paese, del tutto contrario, ma costruendo credibilità e consenso. Con il tempo che ci vorrà: perché non è realistico pensare di ribaltare l’Italia nel tempo reale dei talk show.
Ed è realismo, infine, pensare che il Paese non cambierà mai senza una lotta dal basso. Come ha scritto Emilio Lussu: «La Costituzione è cosa morta, se non è animata dalla lotta. E anche quando siamo stanchi e vicini alla sfiducia, non c'è altro su cui fare affidamento. Rimettersi all'alto è capitolazione, sempre».
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