Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

giovedì 16 giugno 2011

Avessi imparato a suonare il bandoneon!!!

Luciano Granieri


E’ la prima volta che nel nostro blog promuoviamo una pagina facebook. Non credo ci saranno altre occasioni, ma per gli appassionati di jazz uno spazio facebook dedicato a     Chet Baker dal titolo   NASCE LA PAGINA DEDICATA A CHET BAKER, è  un’occasione unica per esprimere impressioni, comunicare fatti e ricordi relativi al grande trombettista di Yale scomparso drammaticamente il 13 maggio 1988. Nel post che segue pubblichiamo un’intervento del blogger Andrea Degidi responsabile del musical box del sito  Quotidiano.net che magnificamente racconta Chet in tutte le sue sfumature artistiche e caratteriali. Personalmente Chet Baker ha segnato due momenti fondamentali, forse i più importanti della mia passione  di “Jezzemane” Il primo risale alla primavera del 1980, allora insieme ad altri amici avevamo costituito la  cooperativa culturale, “Incontro” . In quel periodo stringemmo  una collaborazione con l’associazione “Murales” di Roma che organizzava in Italia, e in particolare nel Lazio, i  concerti dei jazzisti più famosi. Fu così che riuscimmo ad invitare a Frosinone proprio Chet Baker. Nel mitico auditorium del grattacielo Edera, in una splendida serata di primavera salirono sul palco  insieme  a Chet, Enrico Pierannunzi al pianoforte, Enzo Pietropaoli al contrabbasso, Roberto Gatto alla batteria e Nicola Stilo al flauto. Rimanemmo incantati da quel set, soprattutto per gli incredibili impasti sonori fra tromba e flauto, e dalla splendida forma di Baker .  Di quella serata è l’autografo che orgogliosamente allego al mio intervento. All’inverno di due anni dopo risale il momento più bello della mia vita di appassionato di jazz ed è legato ancora una volta a Chet Baker. In un’ umida sera invernale io e il mio amico pianista Andrea Zanchi , ci rifugiammo al Music Inn, il leggendario jazz club  di L.go Fiorentini a Roma aperto nel ’71 dall’appassionato, nonché sofisticato batterista Pepito Pignatelli. Dopo la sua scomparsa la moglie Picchi, ha continuato a tenere alta la fama dell’ex cantina abbandonata dell’Arciconfraternita “la pecorella smarrita” . Purtroppo la morte di Picchi nella metà degli anni ’90 segnò la definitiva chiusura del locale che diventò prima una pizzeria, poi un ristorante, ospitò una scuole di arte drammatica ed infine fu restituito come era logico al jazz, ma questa è un’altra storia. Dunque in quella umida serata io e Andrea scendemmo le magiche  scalette del locale. Enrico Pierannunzi, buon amico di Andrea, si sarebbe esibito al pianoforte, accompagnato da Furio Di Castri al contrabbasso e Roberto Gatto alla batteria. Picchi ci venne incontro avvolta ne suo voluminoso scialle di lana e ci propose delle penne all’arrabiata annaffiate da uno, due, tre, non ricordo più quanti, bicchieri di vino. Enrico si accomodò al nostro tavolo e chiese ad Andrea un passaggio per  dopo il concerto, infatti chi  lo aveva accompagnato non poteva rimanere fino alla fine del set. Satolli di alcool e cibo ci apprestammo a farci avvolgere  dalle trame improvvisative del trio. Pierannunzi, come sempre, sfoggiò una prestazione eccellente con l’incredibile supporto ritmico di Roberto Gatto, già allora uno dei più grandi batteristi della scena jazzistica mondiale e con il timing rigoroso, ma mai scontato, di un ispirato Furio di Castri al contrabbasso. Dopo alcuni standard ed un paio di pezzi composti da Pierannunzi l’atmosfera era quella giusta per una grande serata di jazz . E qui avvenne l’inaspettato. Sotto l’arco d’ingresso della sala comparve la sfumata figura di Chet Baker. Dopo un primo momento di smarrimento per noi fu il tripudio. Chet attraverso con incedere  dinoccolato la sala si accomodò su una sedia. Come d’incanto sul palco comparve un microfono, Chet si alzò chiese uno sgabello , tirò fuori la sua tromba, si accomodò davanti al microfono e attaccò "Soul Dance", un bellissimo brano scritto da Enrico. Da quel preciso istante ci trovammo catapultati in un altra dimensione musicale. Chet stava suonando in un modo incredibile, struggente nelle ballads con il tipico fraseggio introspettivo fatto di note tenute e piegate, agile e lucido nelle improvvisazioni più veloci. Incredibile ma quella sera evidentemente ancora non  era fatto completamente di  roba. In quel periodo Chet aveva ripreso a drogarsi in modo pesante,  non aveva mai una lira, lasciava tutti i suoi cachet nelle mani degli spacciatori e spesso chiedeva soldi agli altri musicisti e anche a suoi fans. Quella notte però il trombettista sfoderò una prestazione sfavillante, tecnicamente impeccabile, ogni sua nota, ogni suo   vocalizzo faceva accapponare la pelle. Esegui un “My Funny Valentine” dal pathos incredibile. Ancora oggi quello è il più bel concerto a cui ho mai assistito. Ma le sorprese non erano finite. Alle tre di notte circa, il quartetto propose il bis finale . Un ultimo bicchiere, salutammo Picchi, aspettammo Enrico che doveva venire con noi e ci avviamo ubriachi di musica e non solo, verso l’uscita. Qui ci raggiunse Chet. Pregò Pierannunzi di ospitarlo a casa sua. Enrico un po’ titubante accettò pur sapendo che Chet gli avrebbe chiesto soldi. Fu così che alle tre e mezza di notte una R4 si trovò a percorrere una  via Giulia deserta con dentro  l’abitacolo il grande Enrico Pierannunzi, l’immenso Chet Baker il sottoscritto e Andrea increduli per gli illustri compagni di viaggio. Chiesi a Chet se ricordava il concerto di Frosinone, disse di si anche se probabilmente non era vero. Domandò come mi chiamavo e quando sentì il mio nome disse che Granieri era un suo vecchio  amico argentino bandoneonista,  stabilì  anzi che io ero un  parente di questo fantomatico amico argentino  . Precisai  che non ero mai stato in Argentina e che non suonavo il bandoneon ma la batteria. Iniziò un lungo  discorso sulla musica latino americana. Quando arrivammo a destinazione Chet scese e nel salutarmi chiese se era possibile organizzare una jam con il sottoscritto. Voleva assolutamente improvvisare assieme ad un suontore di bandoneon. Risposi di essere lusingato dal suo invito ma io suonavo la batteria non il bandoneon. Non finii la frase che Chet era scomparso nella notte. Enrico lo chiamò ma lui era già lontano. Mio caro Chet ovunque tu sia, sarebbe stato meraviglioso suonare con te, ma avrei dovuto apprendere i segreti del  bandoneon. Per un povero batterista dilettante come me appassionato fino alle midolla di Jazz quella fu una serata indimenticabile. Grazie Chet.

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