Nell’ottobre
del 1963 Coltrane arrivò a Milano per
esibirsi al Teatro dell’Arte, con lui il quartetto classico: McCoy Tyner, al piano, Elvin Jones alla batteria, Jimmy
Garrison al contrabbasso. I concerti erano stati organizzati da diversi
impresari e dal critico, storico di jazz, Arrigo Polillo. Dal suo libro
“Stasera Jazz” scritto nel 1978 per
Mondadori, estraiamo un ricordo di quei set.
"Quando io e Maffei arrivammo all’aeroporto per accogliere
Coltrane e i suoi compagni, ci accorgemmo che fra i passeggeri arrivati da Amsterdam non c’era-contrariamente alle previsioni-
proprio nessuno che assomigliasse a loro.
Avevamo purtroppo poco tempo a disposizione : l’aereo che avrebbe dovuto
portare i nostri eroi era atterrato a Linate verso le due e mezza del
pomeriggio , e il primo dei due concerti avrebbe dovuto cominciare due ore
dopo. Accertato che il volo successivo da Amsterdam sarebbe arrivato verso le
cinque e mezza, prendemmo le misure necessarie per fronteggiare la difficile
situazione : uno di noi corse in teatro per essere pronto a comunicare al
pubblico quanto gli avremmo fatto sapere per telefono: e cioè che l’inizio del
concerto sarebbe stato posposto all’ora X, oppure che sarebbe stato annullato.
Gli altri, fra cui io, rimasero all’aeroporto per cercare di sapere in anticipo
se tra i passeggeri del successivo volo ci fossero i nostri amici, per poi
accompagnarli in teatro.
Fu Barazzetta che, valendosi di sue conoscenze, riuscì
ad ottenere ciò che ci veniva dichiarato impossibile, e cioè confermare - quando già l’aereo era in volo –che su di
esso viaggiavano i Signori John Coltrane e C.(Ricordo ancora chiarissimamente
l’emozione con cui apprendemmo per telefono, da Amsterdam, che i quattro passeggeri
da noi ricercati erano in volo verso Milano..) Come Dio volle i nostri
atterrarono a Linate. Li caricai sulla macchina e mi avviai a tutta velocità
verso il teatro, dove il pubblico, tenuto al corrente di quanto stava
succedendo, era in paziente attesa da un
paio di ore (nessuno aveva chiesto il rimborso del biglietto, che pure avevamo
offerto: per Trane valeva la pena aspettare…)
Mentre guidavo i miei nervi erano
tesi tanto che ebbi un lapsus: invece di dire che il pubblico stava aspettando
da ore (hours) in teatro, dissi ai quattro che aspettava da anni (years) , ottenendo come risposta una
fragorosa risata che mi rivelò che fra i
cinque uomini che si pigiavano dietro l’automobile, l’unico veramente
preoccupato ero io. Poi feci a Coltrane questo discorsetto.”Ormai non c’è tempo
per un’intervallo sufficientemente lungo per andare al ristorante, fra un
concerto e l’altro. Al massimo possiamo fare un’intervallo di mezz’ora durante il quale
potrete mangiare delle bistecche che faremo portare in camerino”. Mi confortò un tranquillo "Okay”: evidentemente
il nostro si immedesimava nella situazione anche se sembrava calmissimo.
Arrivato in teatro divenne ancora più calmo:
si cambiò d’abito (suonava sempre con lo smoking) con grande lentezza, fece un
po’ di toilette, e poi si rilassò alcuni minuti; e i suoi uomini fecero altrettanto. In quel
modo si perse un’altra mezz’ora si
arrivò alle sette. Avrei poi imparato, in circostanze analoghe (anche Ray
Charles ci fece anni dopo lo stesso scherzo, e si comportò allo stesso modo),
che è vano aspettarsi da un musicista jazz americano dei movimenti affrettati
prima di un concerto; alcuni minuti di relax
( a base di sigarette più o meno”pesanti”)
prima di suonare sembrano assolutamente
indispensabili.
Ma torniamo a Trane e a i suoi. Quella sera ci regalarono dello
splendido jazz suonando quasi senza soluzione di continuità per più di quattro
ore. Ci fu il previsto intervallo di mezz’ora per la bistecchina in camerino,
ma per il resto: non-stop. Se si pensa che un assolo di Coltrane poteva
continuare senza interruzione per tre
quarti d’ora si può avere un’idea del tour
de force a cui i quattro si sottoposero. Eppure alla fine dei due concerti,
il leggendario sassofonista sembrava fresco
com’era in principio. Come allora (quanto tempo era passato dal primo My Favorite Things della giornata? A me
sembrava un’eternità) rispondeva quietamente, con un dolce, paziente sorriso
sulle labbra, a qualunque domanda gli fosse rivolta. Era un uomo “serafico:”:
questo è l’aggettivo giusto. Proprio il contrario della sua musica, tumultuosa,
ubriacante.
Quel sorriso mi diede il coraggio di rivolgergli
alcune domande formali nella speranza di
ottenere risposte sufficienti per cavarne un’intervista. Poi però troncai
corto, perché provai della compassione
per gli altri uomini che, dopo aver fatto un viaggio da Amsterdam a Milano e
aver dato due concerti di fila, il tutto
nel giro di sei ore o giù di lì, avevano il diritto di andare a dormire.
Tuttavia feci in tempo ad ottenere qualche risposta, e la ricordo bene. Tra l’altro
rammento la scarsa importanza che Coltrane annetteva a un suo disco che a me
pareva ottimo “Olè Coltrane”, e
ricordo soprattutto l’incredibile modestia di cui, con ogni sua risposta, dava
prova. A un certo punto mi disse di avere un contratto con la Impulse che lo obbligava a registrare
tre Lp l’anno. “E’ un problema serio” mi
disse a questo proposito. “Per registrare tre dischi bisogna aver inventato tanta
di quella musica! Nei dischi bisogna mettere solo il meglio di quanto si è
inventato e suonato durante l’anno, e io non so proprio come farò….”
Rividi
ancora una volta Coltrane con i suoi tre amici, al Festival di Juan les Pins,
nel luglio del 1965. Gli sentii suonare un magnifico A Love Supreme (era la prima
volta che ascoltavo da lui questo pezzo oggi famoso, perché allora il disco non
era arrivato in Italia) e poi andai fra le quinte a salutarlo e a congratularmi
con lui . “Guarda chi c’è” disse a Tyner, col sorrisetto serafico che conoscevo
già. E’ inutile aggiungere che, nonostante l’impegnativa impresa (A Love Supreme durava quasi tre quarti
d’ora) era fresco come una rosa.
Non riuscìì più a presentarlo in Italia, anche
se ci provai. Lo avevo anzitutto scritturato per due concerti fissati per il
novembre 1967, quando, in maggio, mi
sentii chiamare al telefono da Londra. Era Alan Bates (era lui che faceva da
tramite con George Wein per quei concerti) che esordiva così: “Spero che tu
stia seduto perché non vorrei che cadessi “ per poi comunicarmi: “Coltrane non
viene in Europa: non se la sente e poi vuole stare vicino alla moglie che è
incinta….Ma stai tranquillo: invece del suo quartetto ti possiamo mandare Max Roach,
Sonny Rollins, Freddie Hubbard”.
Dopo di allora non seppi più nulla di Trane
fino al luglio successivo, quando su un giornale italiano, lessi con un brivido
la notizia della sua morte improvvisa. Aveva avuto dei disturbi al fegato, e si
era fatto ricoverare all’ospedale di Huntington, nei pressi di New York: i
medici avevano però detto subito che era ormai troppo tardi. La verità era che Coltrane aveva da tempo un cancro al
fegato; soffriva le pene dell’inferno ma non diceva niente a nessuno, per non
disturbare. Aveva solo diradato le sue apparizioni in pubblico. Quando mandò
all’aria la tournèe combinatagli da George Wein disse soltanto che non se la
sentiva e che non voleva lasciare la moglie. Sono sicuro che lo disse con quel
sorriso visto tante volte sulle labbra chiuse."
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