Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

lunedì 17 luglio 2017

John Coltrane nel racconto di Arrigo Polillo.

A cura di Luciano Granieri.

Nell’ottobre del 1963  Coltrane arrivò a Milano per esibirsi al Teatro dell’Arte, con lui il quartetto classico:  McCoy Tyner,  al piano, Elvin Jones alla batteria, Jimmy Garrison al contrabbasso. I concerti erano stati organizzati da diversi impresari e  dal  critico,  storico di jazz, Arrigo Polillo. Dal suo libro “Stasera Jazz” scritto nel 1978 per Mondadori, estraiamo un ricordo di quei set.


"Quando io e Maffei arrivammo all’aeroporto per accogliere Coltrane e i suoi compagni, ci accorgemmo che fra i passeggeri arrivati da Amsterdam  non c’era-contrariamente alle previsioni- proprio nessuno che assomigliasse a loro.  Avevamo purtroppo poco tempo a disposizione : l’aereo che avrebbe dovuto portare i nostri eroi era atterrato a Linate verso le due e mezza del pomeriggio , e il primo dei due concerti avrebbe dovuto cominciare due ore dopo. Accertato che il volo successivo da Amsterdam sarebbe arrivato verso le cinque e mezza, prendemmo le misure necessarie per fronteggiare la difficile situazione : uno di noi corse in teatro per essere pronto a comunicare al pubblico quanto gli avremmo fatto sapere per telefono: e cioè che l’inizio del concerto sarebbe stato posposto all’ora X, oppure che sarebbe stato annullato. Gli altri, fra cui io, rimasero all’aeroporto per cercare di sapere in anticipo se tra i passeggeri del successivo volo ci fossero i nostri amici,   per poi accompagnarli in teatro. 

Fu Barazzetta che, valendosi di sue conoscenze, riuscì ad ottenere ciò che ci veniva dichiarato impossibile, e cioè confermare  - quando già l’aereo era in volo –che su di esso viaggiavano i Signori John Coltrane e C.(Ricordo ancora chiarissimamente l’emozione con cui apprendemmo per telefono, da Amsterdam, che i quattro passeggeri da noi ricercati erano in volo verso Milano..) Come Dio volle i nostri atterrarono a Linate. Li caricai sulla macchina e mi avviai a tutta velocità verso il teatro, dove il pubblico, tenuto al corrente di quanto stava succedendo, era  in paziente attesa da un paio di ore (nessuno aveva chiesto il rimborso del biglietto, che pure avevamo offerto: per Trane valeva la pena aspettare…) 

Mentre guidavo i miei nervi erano tesi tanto che ebbi un lapsus: invece di dire che il pubblico stava aspettando da ore  (hours) in teatro, dissi ai quattro che aspettava da anni (years) , ottenendo come risposta una fragorosa risata  che mi rivelò che fra i cinque uomini che si pigiavano dietro l’automobile, l’unico veramente preoccupato ero io. Poi feci a Coltrane questo discorsetto.”Ormai non c’è tempo per un’intervallo sufficientemente lungo per andare al ristorante, fra un concerto e l’altro. Al massimo possiamo fare  un’intervallo di mezz’ora durante il quale potrete mangiare delle bistecche che faremo portare in camerino”. Mi confortò un tranquillo "Okay”: evidentemente il nostro si immedesimava nella situazione anche se sembrava calmissimo. 

Arrivato in teatro divenne ancora più calmo: si cambiò d’abito (suonava sempre con lo smoking) con grande lentezza, fece un po’ di toilette, e poi si rilassò alcuni minuti;  e i suoi uomini fecero altrettanto. In quel modo si perse un’altra mezz’ora  si arrivò alle sette. Avrei poi imparato, in circostanze analoghe (anche Ray Charles ci fece anni dopo lo stesso scherzo, e si comportò allo stesso modo), che è vano aspettarsi da un musicista jazz americano dei movimenti affrettati prima di un concerto; alcuni minuti di relax  ( a base di sigarette più o meno”pesanti”) prima di suonare  sembrano assolutamente indispensabili. 

Ma torniamo a Trane e a i suoi. Quella sera ci regalarono dello splendido jazz suonando quasi senza soluzione di continuità per più di quattro ore. Ci fu il previsto intervallo di mezz’ora per la bistecchina in camerino, ma per il resto: non-stop. Se si pensa che un assolo di Coltrane poteva continuare senza interruzione  per tre quarti d’ora si può avere un’idea del tour de force a cui i quattro si sottoposero. Eppure alla fine dei due concerti, il leggendario sassofonista sembrava fresco  com’era in principio. Come allora (quanto tempo era passato dal primo My Favorite Things della giornata? A me sembrava un’eternità) rispondeva quietamente, con un dolce, paziente sorriso sulle labbra, a qualunque domanda gli fosse rivolta. Era un uomo “serafico:”: questo è l’aggettivo giusto. Proprio il contrario della sua musica, tumultuosa, ubriacante.  

Quel  sorriso mi diede il coraggio di rivolgergli alcune domande formali  nella speranza di ottenere risposte sufficienti per cavarne un’intervista. Poi però troncai corto,  perché provai della compassione per gli altri uomini che, dopo aver fatto un viaggio da Amsterdam a Milano e aver dato  due concerti di fila, il tutto nel giro di sei ore o giù di lì, avevano il diritto di andare a dormire. Tuttavia feci in tempo ad ottenere qualche risposta, e la ricordo bene. Tra l’altro rammento la scarsa importanza che Coltrane annetteva a un suo disco che a me pareva ottimo “Olè Coltrane”, e ricordo soprattutto l’incredibile modestia di cui, con ogni sua risposta, dava prova. A un certo punto mi disse di avere un contratto con la Impulse che lo obbligava a registrare tre Lp  l’anno. “E’ un problema serio” mi disse a questo proposito. “Per registrare tre dischi bisogna aver inventato tanta di quella musica! Nei dischi bisogna mettere solo il meglio di quanto si è inventato e suonato durante l’anno, e io non so proprio come farò….”

Rividi ancora una volta Coltrane con i suoi tre amici, al Festival di Juan les Pins, nel luglio del 1965. Gli sentii suonare un magnifico A Love Supreme  (era la prima volta che ascoltavo da lui questo pezzo oggi famoso, perché allora il disco non era arrivato in Italia) e poi andai fra le quinte a salutarlo e a congratularmi con lui . “Guarda chi c’è” disse a Tyner, col sorrisetto serafico che conoscevo già. E’ inutile aggiungere che, nonostante l’impegnativa impresa (A Love Supreme  durava quasi tre quarti d’ora) era fresco come una rosa. 

Non riuscìì più a presentarlo in Italia, anche se ci provai. Lo avevo anzitutto scritturato per due concerti fissati per il novembre  1967, quando, in maggio, mi sentii chiamare al telefono da Londra. Era Alan Bates (era lui che faceva da tramite con George Wein per quei concerti) che esordiva così: “Spero che tu stia seduto perché non vorrei che cadessi “ per poi comunicarmi: “Coltrane non viene in Europa: non se la sente e poi vuole stare vicino alla moglie che è incinta….Ma stai tranquillo: invece del suo quartetto ti possiamo mandare Max Roach, Sonny Rollins, Freddie Hubbard”. 

Dopo di allora non seppi più nulla di Trane fino al luglio successivo, quando su un giornale italiano, lessi con un brivido la notizia della sua morte improvvisa. Aveva avuto dei disturbi al fegato, e si era fatto ricoverare all’ospedale di Huntington, nei pressi di New York: i medici avevano però detto subito che era ormai troppo tardi. La verità  era che Coltrane aveva da tempo un cancro al fegato; soffriva le pene dell’inferno ma non diceva niente a nessuno, per non disturbare. Aveva solo diradato le sue apparizioni in pubblico. Quando mandò all’aria la tournèe combinatagli da George Wein disse soltanto che non se la sentiva e che non voleva lasciare la moglie. Sono sicuro che lo disse con quel sorriso visto tante volte sulle labbra chiuse."

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