Il 17 luglio è una data terribile per tutti gli appassionati di jazz. Oltre a John Coltrane, morto il 17 luglio del 1967 , anche Billie Holiday ci lasciava in un 17 luglio, era il 1959. Il mese scorso tradussi dal sito americano "Jerry Jazz Musician" uno straordinario articolo su un momento magico, fra i tanti, che Billie Holiday regalò agli appassionati nel dicembre del 1957. Lo ripropongo per ricordare degnamente Lady Day
Nel nuovo brillante libro di Martin Torgoff “Bop Apocalypse” – una larga esplorazione nelle connessioni fra jazz, letteratura e droghe, con un’analisi di come gli stupefacenti abbiano inciso nella vita e nel lavoro di artisti come Charlie Parker, Jack Kerouac, Lester Young, William Burroughs e Allen Ginsberg -Torgoff dedica un capitolo al travaglio che soffrì Billie Holiday per l’abuso di droga. Mette anche in risalto come la stessa Holiday ammetta pubblicamene di fare uso di stupefacenti nella sua autobiografia “Ladies sings the blues” pubblicata nel 1956.
L’ autobiografia contiene errori che hanno lasciato molti dubbi in critici e biografi sulla sua veridicità. Come Torgoff scrive con molto rispetto: “il libro è molto attendibile in relazione ai primi anni di Billie a Baltimora e circa il periodo in cui si prostituiva. E’ ricco di notizie sulla sua vita segnata dalle droghe e dalla tossicodipendenza”. Nel libro, Billie scrisse: “Ho patito per quindici anni molte difficoltà a causa della dipendenza , con l’alternanza di momenti si e momenti no. Mi sono esalata e mi sono abbattuta. Come ho detto prima quando ero veramente euforica nessuno mi importunava. Ho avuto guai entrambe le volte che ho provato a distruggermi . Ho dilapidato una piccola fortuna per la roba. Ho lottato,mi sono disintossicata ho subito le mie sconfitte e ho dovuto lottare di nuovo contro tutto e tutti per raddrizzare le cose”.
Queste erano le drammatiche parole scritte nell’autobiografia uscita nel 1956, un periodo in cui ogni dichiarazione o ammissione sull’uso delle droghe ti rendeva un emarginato. Torgoff ci ricorda come pubblicazioni che riportavano vicende legate all’uso dei narcotici fossero state bandite dal Motion Picture Production Code del 1930 e nessuna major cinematografica o casa editrice avrebbe voluto pubblicare soggetti legati alla tossicodipendenza, ma il personaggio del jazzista tossico-dipendente che Frank Sinatra interpretò nel film di Otto Pirminger “ The man of the golden arm” trasgredì la regola . Lady Day (così veniva anche chiamata Billie ndr) capì così che forse i tempi erano maturi per raccontare la sua storia.
“Billie Holiday si trovava nella scomoda posizione di essere la criminale scrittrice di un libro dedicato ad una vicenda per la quale era stata condannata, reclusa in cella, per cui aveva subito di recente l’ennesimo arresto per uso di stupefacenti- naturalmente faceva ancora uso di droghe”, scrive Torghoff e prosegue:“L’autobiografia si conclude con capitolo interamente focalizzato sui narcotici… con una parte finale dedicata ai più recenti problemi che Lady Day aveva avuto con a legge”. Il libro in ultima analisi “ fu la prima vera testimonianza confessionale di una celebrità tossicodipendente dell’era moderna” e contribuì al sorgere della “leggenda di una Billie Holiday grande cantante americana tossico dipendente devastata dal dolore. Leggenda che si trasformò in un marchio indelebile ”
Nel novembre del 1956 in un intervista alla radio Mike Wallace chiese a Billie:” Perché tanti grandi jazzisti sembrano morire così presto- Bix Beiderbecke, Fats Waller, Charlie Christian, Charlie Parker?” La sua pronta replica divenuta famosa fu: “ Posso rispondere a questa domanda in un solo modo Mike . E’ perché tentiamo di vivere cento giorni in un giorno solo e perché dobbiamo cercare di piacere a tante persone. Io voglio forzare questa nota ma anche quell’altra nota ,cantare in questo modo ma anche in un altro modo, voglio prendermi tutto il feeling, mangiare tutto il buon cibo e viaggiare per tanti luoghi, tutto in un solo giorno, e non puoi farlo”.
Quando la Stazione televisiva CBS decise di produrre “ The Sound of jazz” una selezione speciale della loro serie “The Seven Lively Arts” il produttore Robert Herridge chiese a critici di jazz Nat Hentoff e Whitney Balliet di riunire i più grandi jazzisti del periodo per farli esibire in uno show che sarebbe andato in onda l’otto dicembre del 1957. Fra questo gruppo di musicisti,ovviamente, c’era Billie Holiday,ma il marchio di cantante tossico-dipendente devastata dal dolore convinse lo sponsor della trasmissione a richiedere la sua esclusione dal programma. “ Non possiamo portare nelle case degli americani , specialmente di domenica, qualcuno che è schiavo degli stupefacenti”. E’ questo il contesto in cui si sviluppa l’estratto da Bop Apocalypse. Il “momento magico” impresso indelebilmente nelle menti di coloro che onorano questa grande donna e l’accompagnarono a questo appuntamento.
Forse nessuno ha mai descritto lo spirito fondamentale e la sensibilità della vita da jazzista con più realismo o più onestamente. “ Nel vivere cento giorni in un giorno” Lady Day ha posto l’accento su quella forza vitale molto romantica, ed enigmatica che ha permeato il jazz , creato molte delle sue innovazioni e trionfi. Ma, allo stesso tempo, è sembrato generare quel tipo di tossicodipendenza e alcolismo che avrebbero consumato alcuni dei suoi più grandi artisti. Nessuno ha personificato questo spirito meglio di Billie Holiday.
Quando Herridge, Balliet ed Hentoff valutarono l’ipotesi di fare lo show senza di lei capirono semplicemente che non avrebbero potuto accettare tale prospettiva. Herridge diffuse un comunicato in base al quale, se a Billie Holiday fosse stato impedito di esibirsi, loro avrebbero cancellato lo show. Lo stratagemma funzionò e l’otto dicembre del 1957 il set fu così introdotto da Bing Crosby: “Billie Holiday è una delle poche cantanti di jazz veramente grandi. I suoi blues sono poetici estremamente intensi. A suonare con lei oggi ci sono alcuni dei musicisti che l’anno accompagnata in passato, negli anni trenta, in alcune delle più belle incisioni mai realizzate”
Ed erano li posizionati in semicerchio attorno ad uno sgabello dello studio 58: Roy Eldridge e Doc Cheatham alle trombe, Lester Young, Ben Webster, e Coleman Hawkins, tre dei più grandi sassofoni tenori della storia del jazz, Gerry Mulligan, il più giovane del gruppo, al sax baritono, Mal Waldrom al pianoforte, Milt Hinton al contrabbasso, Vic Dickenson al trombone, e Ossie Johnson alla batteria.
“Ci sono due tipi di blues, c’è un blues allegro e uno triste” osservò Billie mentre raggiungeva lo sgabello e si posizionava davanti al microfono. “Io non lo so, il blues è una sorta di miscuglio di cose, devi solo sentirle. Qualsiasi cosa io canti è parte della mia vita”
Anche se fu spesso etichettata come cantante di blues, Lady Day ha registrato solo tre brani nella classica forma delle dodici battute tipica del blues. La band attaccò proprio uno di questi pezzi: “Fine and mellow”. Il lato B di “Strange Fruit”, il famoso pezzo o registrato nel 1939. Lei si predispose al canto e non appena apri bocca nello studio si diffuse magia.
My man don’t love me
Treats me oh so mean
Lady Day indossava un vestito di lana chiaro, semplice, che copriva appena le ginocchia, i suoi capelli erano raccolti all’indietro in una coda di cavallo che lasciava scorgere due orecchini debolmente rilucenti nello studio. La sua figura appariva minuta, soprattutto se paragonata alla corporatura massiccia che la contraddistinse in gioventù : “Era una piccola e delicata donna” osservò Roy Eldridge scioccato da quanto fosse cambiata. Nonostante tutto era un mistero come potesse apparire ancora più luminosa e più bella di prima dopo i drammatici momenti che aveva passato.
Ben Webster prese il primo assolo, come altri nello studio aveva avuto una storia con Lady Day “una piccola illuminazione intima”, Roy Eldridge la descrisse così. Nel caso di Webster si trattava di un fugace innamoramento che risaliva agli anni ’30. Una vicenda che si concluse quando Webster picchiò Billie procurandole un occhio nero. La madre della Holiday si arrabbiò così tanto quando vide l’occhio tumefatto di sua figlia che inseguì Webster, dal loro appartamento fino in strada sul taxi picchiandolo con un ombrello.
Lester Young, fu il secondo a suonare –l’amico prediletto di Billie- Sin da quando Prez (soprannome di Young ndr) arrivò, due giorni prima per le prove, divenne malinconicamente ovvio a tutti che stava peggiorando. Egli si prese con calma tutto il tempo necessario, indossava delle pantofole perche i piedi gli facevano molto male. Quando Lady Day invitava i musicisti nel suo appartamento per un piatto di costolette e verdura lui non andava mai. Venti anni erano passati da quando avevano diviso la loro prima esperienza, quando Prez suonava così brillantemente accompagnandola in “I must have the man” la canzone che aveva dato inizio al loro romantica storia musicale. La relazione fra i due alternò momenti esaltanti e periodi di crisi, una lungo menage alienante che lasciò entrambi molto tristi. All’età di 48 anni Prez si specchiò, afflitto, nei suoi occhi verdi carichi di malinconia. Ma quando dalle sue labbra uscirono le note del sassofono e suonò tutto quello che il ricordo di quella passione aveva lasciato dentro di se, Billie sentì forte tutto l’amore che lui provava per lei. Nat Hentoff descrisse così l’assolo: “ Eseguì i più cristallini e puri accordi di blues che abbia mai sentito, Billie sorridendo e seguendo con il dondolio della testa il beat che si diffondeva, guardava negli occhi Prez, e lui lei. Lady Day stava rivivendo il passato con malinconico rammarico, così come stava facendo Prez. Qualsiasi cosa avesse rovinato la loro relazione fu dimenticata nella condivisione della musica. Seduto nella stanza del mixer sentii le lacrime salirmi negli occhi e vidi le stesse lacrime sul viso di molti fra quelli che erano li” Nel vivere quei momenti Hentoff rimase impressionato . Invece della “buccia avvizzita che era prima ” Lady Day “ si mostrava in pieno controllo, swingava sinuosamente con quello straordinario strumento che era la sua voce”. Alternò suggestive linee melodiche con gli sfarzosi assoli di Mulligan, Falco, Dickenson, ed Eldridge. “L’amore è come un interruttore, gira di tanto in tanto” cantò con un sorriso nostalgico, portando il brano nella sua dimensione personale, non lasciando dubbi sul fatto che stesse raccontando la storia della sua vita come sempre aveva fatto. “A volte quando pensi che sia acceso, baby, si spegne e tutto finisce”
E con quella esibizione la signora che voleva vivere cento giorni in un giorno scivolò via .
“Il resto del programma procedette regolarmente” ricordò Hentoff” ma questo era stato il climax, l’anima autentica del jazz” E’ una performance che rimane, forse, il più grande momento mai registrato in un video. Tutto in questa esibizione profuma d’amore. Amore reciproco e per la musica. Emerge il grande legame musicale che tutti loro avevano condiviso durante un era che stava scivolando via lungo le loro vite.
traduzione di Luciano Granieri.
good vibrations.
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