Una nuova perdita va ad aggravare
ulteriormente l’impatto già pesantemente negativo che i derivati hanno avuto
sin qui sui conti pubblici
Grazie ai derivati sottoscritti dallo Stato,
nel 2016 ci siamo giocati un altro miliardo. Come conferma il Rapporto sul
Debito Pubblico 2016 del ministero dell’Economia e delle Finanze, uno swap da
2 miliardi di euro, grazie ad una clausola contenuta nel contratto e favorevole
alla banca contraente, è stato da quest’ultima chiuso anticipatamente, con un
esborso da parte dello Stato di 1,017 miliardi di euro.
Questa nuova perdita va ad aggravare ulteriormente
l’impatto già pesantemente negativo che i derivati hanno avuto sin qui sui
conti pubblici: solo nel quinquennio 2011-2015, fra interessi netti pagati alle
banche e altri oneri connessi, lo Stato ha perso infatti 23,5 miliardi di euro.
Non sembra molto consolante l’incipit con cui il Rapporto si apre e che
così recita: «(..) la gestione del debito pubblico del Tesoro è allineata alle
raccomandazioni delle principali istituzioni finanziarie multilaterali (Fondo
Monetario Internazionale e Banca Mondiale) e alla prassi seguita dai gestori
del debito pubblico dei paesi avanzati».
O forse dice la verità, ovvero che il debito pubblico è l’alibi per
proseguire le politiche liberiste di espropriazione della ricchezza collettiva
a tutto vantaggio dei grandi interessi finanziari.
Anche perché la clausola che ha permesso questa nuova perdita di un
miliardo è la medesima che ha consentito a Morgan Stanley nel 2012 la chiusura
anticipata di 13 contratti derivati, in seguito alla quale l’allora governo
Monti aveva versato 2,7 miliardi e oggi la Corte dei Conti ha rinviato a
giudizio per danno erariale (3,9 miliardi) la banca medesima, gli ex-ministri
Vittorio Grilli e Domenico Siniscalco, il Direttore del Tesoro Vincenzo La Via
e la dirigente Maria Cannata.
Vale la pena ricordare quanto afferma la Corte dei Conti in merito a
questi contratti: «Evidenziavano profili speculativi che li rendevano inidonei
alla finalità di ristrutturazione del debito pubblico – l‘unica consentita
dalla normativa per operazioni in derivati – non essendo ammissibile per lo
Stato, investitore pubblico, assumersi rischi rilevantissimi».
Stiamo ragionando al passato, per quanto gravido di conseguenze
economiche e sociali? Certo che no.
Perché il medesimo Rapporto ci informa che al 31 dicembre 2016 il valore
di mercato degli strumenti derivati sul debito tuttora attivi era negativo per
37,9 miliardi, a fronte di un valore nozionale di 143,5 miliardi.
A poco vale la considerazione che «un valore di mercato negativo oggi
non significa automaticamente un valore di mercato negativo alla scadenza dei
contratti», come si affretta a rassicurare il Tesoro. Il dato di fatto è che ad
oggi abbiamo già perso quasi 25 miliardi e siamo sulla strada giusta per
perderne in futuro altri 38.
Qualcuno ha idea di quanti posti di lavoro socialmente utili ed
ecologicamente orientati si potrebbero creare con 63 miliardi destinati alla
riconversione del modello produttivo e sociale invece che essere destinati ad
ingrassare le lobby finanziarie e le grandi banche?
Con quei soldi si potrebbe mettere mano al riassetto idrogeologico del
territorio, rinnovare tutte le infrastrutture idriche, ridare funzione di
servizio pubblico universale alla sanità e all’istruzione del nostro paese.
Sembrerebbe un tema strategico fondamentale per una campagna elettorale
che parli il linguaggio della dignità, ma non sembra delinearsi all’orizzonte
alcuna ridiscussione del terreno di gioco prestabilito: la sacralità del
debito, l’oggettività dei parametri di Maastricht, l’obbligo del pareggio di
bilancio e del Fiscal Compact.
Un compito invece mai così urgente e necessario che chiama i movimenti
sociali e le realtà autorganizzate ad un vero salto di qualità politico e
sociale. Occorre cambiare il presente per non mandare in fumo il futuro.
fonte "il manifesto" 11/11/2017
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