Lettera di Francesco dal carcere di Cuneo
10/6/2014,
Cuneo.
Cuneo.
Sono 27 gli episodi incriminati, attraverso cui le autorità, il 3 giugno scorso, hanno spiccato 17 arresti, 12 in carcere e 5 ai domiciliari, 4 obblighi di dimora e 4 divieti di dimora da Torino e 4 obblighi di firma. Sotto inchiesta è finita la lotta contro gli sfratti, sviluppatasi nelle strade di Porta Palazzo, Aurora e Barriera di Milano a Torino.
Il racconto che emerge nelle pagine contenenti gli appunti degli imbrattacarte di Questura, Procura e tribunale non è certo molto avvincente e non riesce neanche lontanamente a descrivere i contorni di questa lotta. Sarebbe del resto stolto attendersi qualcosa di diverso da questi grigi scribacchini.
Spulciando però tra le 200 e rotte pagine dell’ordinanza di custodia cautelare, si scopre che anche un uomo di tribunale può scrivere qualcosa degno di nota.
Scrive infatti il GIP: «L’effetto di tale plurime, concertate azioni oppositive è stato, sostanzialmente, quello di privare di autorità e di forza esecutiva le decisioni giudiziarie […], vanificando le condizioni essenziali al mantenimento dello stato di diritto e costituzionale».
Parole che, tradotte in una lingua umana, sottolineano come questa lotta abbia impedito a ufficiali giudiziari e forze dell’ordine di buttare in mezzo a una strada decine e decine di uomini, donne e intere famiglie. Come stabilito da qualche giudice torinese. E così facendo, nel suo piccolo, ha messo in discussione alcuni dei valori fondanti di questa società come la proprietà privata e il monopolio della forza da parte dello Stato. Nelle strade di questo pezzo di Torino si è respirata insomma un’aria un po’ diversa dalla solita asfissiante normalità. Una normalità scandita da centinaia e centinaia di sfratti l’anno che assegnano a Torino il vergognoso titolo di “capitale italiana degli sfratti”. Una normalità caratterizzata dall’arroganza degli ufficiali giudiziari che, forti del sostegno di Carabinieri e Polizia, svolgono senza esitazione il loro infame e servile lavoro. Una normalità in cui chi non può o non vuole più pagare un affitto dovrebbe accettare a testa bassa la propria sorte, affidarsi agli assistenti sociali e poi aspettare, pazientemente, la lotteria in cui si assegnano le case popolari, sperando che venga pescato il proprio bussolotto. E nel frattempo arrangiarsi come possibile, dormendo in macchina o sul divano di qualche conoscente, accettando magari di dividersi, nel caso delle famiglie, in attesa di tempi migliori.
Questa lotta ha invece un po’ sconvolto questi ruoli e, picchetto dopo picchetto, assemblea dopo assemblea, sempre più uomini e donne hanno scoperto che non c’è nulla da vergognarsi nel far presente pubblicamente la propria situazione, che facendolo non si è più soli, e che resistere è possibile.
Nel corso della lotta cresce così la determinazione, il coraggio, la sensazione che si può osare. L’asticella di ciò che si può pretendere si sposta allora sempre più in alto, e per diversi mesi durante i picchetti non ci si preoccupa più del rischio che lo sfratto venga eseguito, ma di quanto tempo si riuscirà a strappare all’ufficiale giudiziario. Proroghe di qualche settimana, che fino a poco tempo prima sarebbero state accolte con entusiasmo ora non bastano più. Si pretende di poter restare a casa propria per due, tre, quattro mesi, così da poter organizzare con più serenità la propria vita.
E la forza accumulata nel corso di questa lotta consente di prendersi questa serenità. Ma consente anche di far fronte alla prima contromossa delle autorità cittadine: concentrare nello stesso giorno – il terzo martedì del mese – diversi sfratti, per dividere chi resistere e aver così facilmente la meglio su di loro. Chi lotta riesce invece ad organizzarsi e difendersi ogni terzo martedì, barricandosi con cassonetti davanti ai portoni e chiudendo intere strade per tenere lontane le forze dell’ordine. E queste barricate non sono un efficace strumento di resistenza, ma diventano un po’ il simbolo di questa lotta e spiegano cosa accade molto più chiaramente di mille volantini. E se, come sottolinea il GIP, gli ufficiali giudiziari hanno iniziato a non girare più volentieri per le strade di Barriera di Milano per sfrattare una parte dei suoi abitanti, beh questo non può che rallegrare il cuore di molti. Una volta tanto la paura ha cambiato di campo.
Quest’inchiesta è solo l’ultima iniziativa intrapresa a livello giudiziario contro questa lotta. La primavera scorsa, dagli uomini di tribunale fu estratto dal cilindro un articolo che, dopo esser stato testato qui, verrà utilizzato sempre più sistematicamente anche altrove, il 610, l’incidente di esecuzione. Con il 610, gli ufficiali giudiziari, di fronte a un picchetto, rimettono la procedura di sfratto nelle mani di un giudice che fissa un’altra data che non deve essere però comunicata allo sfrattando. Così lo sfratto diventa uno sgombero, le forze dell’ordine possono agire praticamente indisturbate, e chi ha uno sfratto vive nell’angoscia quotidiana di non sapere neanche fino a quando potrà avere un tetto sopra la testa.
Inutile sottolineare che questo cambiamento ha creato non pochi problemi alla lotta. La resistenza agli sfratti è comunque continuata cercando di escogitare nelle assemblee nuove strategie per mettere i bastoni tra le ruote ai signori della città. E continuerà di certo dopo questi arresti, come mostra la contestazione alla sede degli ufficiali giudiziari del 4 giugno, l’occupazione del 12 e la manifestazione del 14. Perché le lotte non si arrestano.
Un ultimo pensiero non può poi non andare ai dirigenti del PD, che si sono subito felicitati di quest’operazione giudiziaria. Anche in questo caso la loro ostilità non può che rallegrarci, e del resto crediamo di essere in buona compagnia. Perché il Partito Democratico, come mostrano le tante iniziative, di giorno e di notte, nelle piazze e davanti alle loro sedi, non fa certo schifo solo a chi lotta contro gli sfratti.
Francesco
Per scrivergli:
Francesco Di Berardo C.C. via Roncata, 75 - 12100, Cuneo.
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