Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

lunedì 25 aprile 2011

"Le Fraschette" di Alatri, campo d'internamento per slavi

Fonte http://www.cnj.it  Vincenzo CERCEO 


Da tempo i partigiani ciociari, nella provincia di Frosinone, chiedono al Ministro per i Beni e le Attività  culturali che il campo delle "Fraschette", nei pressi di Alatri (località a poche decine di chilometri da Roma),  venga ufficialmente riconosciuto come "luogo della memoria", analogamente a quanto è già accaduto per il campo  di Ferramonti di Tarsia, in Calabria, ma la richiesta è, sin qui, rimasta "inevasa".  Oggi, al campo delle "Fraschette" non c'è alcun segno che chiarisca ai rarissimi visitatori cosa ha  rappresentato questo campo, quali tragedie vi sono state vissute. Anzi: negli ultimi anni è stato riadattato per  ospitare profughi provenienti dall'Est europeo. Sulla realtà passata di questo campo esiste già un vuoto di  memoria raggelante: un solo esempio: durante la ricerca condotta da chi scrive sull'argomento, una dipendente  dell'Archivio di Stato di Frosinone, informata per la prima volta che, nei decenni passati, a pochi chilometri da 

casa sua era stato in funzione un campo fascista di concentramento ed internamento, esclamava sorpresa: "è la  prima volta che lo sento!". E ciò è spiacevole. 

Ma vediamo più da vicino il campo delle "Fraschette": una chiara descrizione è data, ad esempio, da una  slovena che fu internata: Milena Giziak da Vertoiba, frazione del comune di Gorizia. Arrestata con tutta la famiglia nel settembre 1942 perché un fratello era andato partigiano, rinchiusa in carcere (aveva solo 13 anni!)  fino al marzo 1943, con cibo scarsissimo e con suore-agenti di custodia che obbligavano le donne a pregare, fu, 
infine, spedita con altre 150 donne alle "Fraschette". Ecco cosa leggiamo nella testimonianza rilasciata dalla stessa  e pubblicata nel volume dell'ANED intitolato: "Gli internati dal 1940/1943". 
"Il campo di Fraschette era collocato in una conca disabitata, circondata da monti. Eravamo quasi solo  donne. Il vitto era impossibile: un mestolo di brodaglia e un etto di pane al giorno. Sporcizia rivoltante nei luoghi  dove il cibo veniva preparato. Spaventose soprattutto le condizioni delle croate e delle greche, tanto da essere  costrette ad aggirarsi attorno ai bidoni della spazzatura onde recuperare bucce di patate e qualche altro scarto". 

Una certa solidarietà, afferma la Giziak, veniva loro dai giovani soldati di guardia, i quali "tolleravano le  uscite clandestine delle internate per saccheggiare nelle campagne circostanti la frutta e quant'altro potesse  attenuare gli stimoli della fame". È l'eterna complicità dei sessi, che prescinde dalle ideologie e dai regolamenti; 
una delle cose che, in ogni epoca, hanno consentito di sperare, nonostante tutto. 



LA MEMORIA LUNGA 


Il campo delle "Fraschette" venne progettato nell'aprile del 1941 per ospitare 7.000 prigionieri di guerra, ma, dato il problema impellente degli sfollati, il Ministero degli Interni decise presto di  destinarlo a questo uso. Alla fine prevalse un terzo uso: campo di internamento per migliaia di slavi che venivano deportati per rappresaglia contro l'attività partigiana. La gestione dell'internamento, però, fu affidata non alla 

Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, bensì all'Ispettorato Generale per i servizi di guerra. Ciò consentiva  al governo di risparmiare il versamento del sussidio di L. 6,50 al giorno per ogni internato. Al campo, dunque, fu  la fame più nera. All'interno del campo, si mangiava solo, da parte degli slavi, la brodaglia preparata dai militari. 

Diversa era invece la situazione per i non numerosi internati anglo-maltesi che venivano assistiti dalla Croce  Rossa svizzera. Erano gli slavi, insomma, ad essere condannati all'inferno. Traccia chiarissima ne risulta dalla  consultazione dei registri di morte, di cui il sindaco di Alatri, con gesto liberale e lungimirante, ha consentito a chi 
scrive la consultazione e l'uso per fini di documentazione storica.  L'elenco è lungo, allucinante. Morivano, in percentuale, il 95% di internati slavi, quasi ogni giorno, dai 
due mesi di età agli 89 anni  Nel luglio 1943 su 1.162 "Dalmati" presenti nel campo, circa 500 erano bambini, quasi tutti orfani. Gli  internati erano civili, familiari di "ribelli" slavi, tenuti in ostaggio per convincere i partigiani a rinunciare alle loro  attività in cambio del ritorno a casa degli internati. Di queste cose, in particolare, si è occupato lo storico calabrese  Carlo Capogreco, a cui dobbiamo la maggior parte delle notizie qui sopra riportate. Il 25 luglio non modificò la  situazione degli internati, che, anzi, nell'estate del 1943 salirono fino ad un numero massimo di 4.500 persone. 
Dopo l'8 settembre, il venir meno della vigilanza consentiva a molti internati di fuggire, e, nel novembre dello  stesso anno, le SS tedesche imposero al governo di Salò il trasferimento degli ultimi rimasti, in numero di 1.300,  al campo di Fossoli, presso Carpi. Gli slavi, però, avevano avuto modo, per la massima parte, di tornare  fortunosamente e faticosamente a casa. I tedeschi non erano molto interessati ad essi. Uno studio approfondito su  queste vicende però manca ancora. Con l'estate del 1943, inoltre, il vescovo di Alatri, mons. Facchini, aveva  ottenuto la presenza di una comunità di 5 suore nel campo per assistere gli internati.



IL VESCOVO ANTIFASCISTA



Agli inizi di febbraio 1944, il governo di Salò inviava alla segreteria di Stato vaticana una nota riservata,  riguardante il vescovo di Alatri, mons. Facchini. Ci piace riportarla: 
"Monsignor Vescovo di Alatri il giorno 30/1/1944 durante la Santa Messa delle ore 12.00, in un appello ai  fedeli di Alatri dichiarava, alla presenza di numerosi ufficiali, che era necessario mostrare ai tedeschi i denti".  Fu lui a coordinare in zona le tre componenti della Resistenza (quella cattolica, quella militare e quella  marxista, che divenne presto preminente) ed a fornire il ciclostile per stampare, in Curia, il giornale clandestino  dei partigiani. La morte di questo nobile prelato, negli anni '60, durante il Concilio Vaticano II, non ha attenuato il  rispetto dei concittadini per il nome; rispetto che è sempre stato e rimane totale. Il segretario di mons. Facchini,  oggi vecchio parroco di campagna, ma fine intellettuale ed ottimo filologo autore di studi specialistici, fornisce  testimonianze verbali toccanti circa quel periodo. La presenza di quel campo di internamento nella sua diocesi era,  per il Vescovo, una spina nel cuore che non gli dava pace. "Andava anche due o tre volte al giorno al campo, a  piedi oppure con la sua Balilla". "I responsabili del campo non avevano grande considerazione per le condizioni 
degli internati". Accadevano strani traffici, specie denaro. Monsignor Facchini accusava tutti pubblicamente, dal  pulpito. Riuscì a far trasferire il direttore, ma, dopo poco, lo vide reintegrato. Partì allora per Roma, per parlare col  Capo della Polizia, ma non ottenne nulla. Evidentemente troppo forti erano gli interessi in gioco. Ottenne però 
l'autorizzazione a creare, all'interno del campo, un presidio di suore; al momento dell'attuazione, però, le suore  della diocesi si rifiutarono. Mons. Facchini era prelato non uso a discutere con i suoi inferiori: dette ordine alle  stesse di eseguire le sue direttive. È grazie al diario della superiora di quel gruppo di suore, Madre Mercedes  Agostini (che proprio Facchini volle fosse compilato e conservato), che abbiamo notizie preziose sulla vita del campo. Un giorno il Vescovo dovette protestare affinché l'infermeria del campo fosse fornita di un bisturi: durante  la notte, infatti, un internato medico aveva dovuto operare un'appendicite urgentissima con una lametta da barba  "perché l'ospedale era lontano e l'ammalato rischiava di morire in barella". A guerra finita, dettero a Mons 
Facchini una medaglia di bronzo al merito, ma egli non volle andare a ritirarla in Prefettura. È bello anche sentire  di queste testimonianze: il 1° maggio 1943, cinque donne slave del campo furono sorprese con un nastrino rosso  tra i capelli. "È il 1° maggio, dissero ai poliziotti, e vogliamo festeggiarlo". Il Prefetto, informato, raccomandò  maggiore vigilanza. E sempre dal Prefetto, Mons. Facchini (che pur sempre era sacerdote), si lamenta così: "i  soldati addetti alla cucina si prendono la libertà di assumere in cucina, come aiutanti, le più belle tra le donne del  campo". E pazienza! 


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