Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 2 settembre 2017

Rivoluzione matriarcale e abolizione della proprietà privata del maschio.

Luciano Granieri




Non c’è atto più vigliacco, crudele e aberrante, dello stupro. La violenza sulle donne è un fenomeno che non accenna mai a declinare, è diventato un orrendo misfatto strutturalmente incancrenitosi nella collettività.  Ciò che mi indigna di più è che  lo stupro viene strumentalizzato, per cavalcare altre odiose derive per  nulla attinenti al  fenomeno. Mi riferisco alla connotazione razzista   spesso associata  ad un misfatto che con il razzismo non ha niente a che vedere. 

L’uscita di Giorgia Meloni sugli stupratori di Rimini è illuminante in questo senso. Prima chiama in causa la Presidente della Camera, Laura Boldrini,  perché  non avrebbe stigmatizzato gli stupri solo perché, secondo la Meloni, sono stati commessi da magrebini.  Poi, e questo è ancora più grave, la  leader di Fratelli d’Italia condanna l’azione violenta, non per la gravità del fatto in  se, ma perché commessa da “un branco di vermi magrebini”.  Il branco è di vermi non perché hanno stuprato, ma in quanto  sono magrebini. Probabilmente se  a commettere le violenze fossero stati italiani, questi non sarebbero stati bollati come vermi. 

Strumentalizzare un atto scellerato come lo stupro, non solo per fini politici, ma anche per attizzare ulteriormente un clima già incattivito  verso gli immigrati, è irresponsabile. Infatti  la millantata  componente razzista   sposta il problema da quella che dovrebbe essere un’efficace valutazione del fenomeno  della violenza sulle donne. Né peraltro mi pare corretto ridurre tutto ad una questione di genere: contrasto uomo-donna. E’ vero  che è   sempre la donna a subire, ma non in quanto essere femminile in se , ma in quanto proprietà, privata, esclusiva del maschio. 

Lo so la “meno”  sempre con la storia della proprietà privata. Probabilmente sarà il solito condizionamento dovuto alla mia ideologia comunista. Però uno dei tanti insulti vomitati suo social in merito a queste odiose vicende mi ha fatto riflettere. A un tizio che su FB, condannava la commistione scorretta fra razzismo e stupro, viene risposto: “Potesse un branco di negri violentare tua moglie  e pure tua sorella”. Cioè la violenza che viene invocata, non riguarda il maschio, (potesse un branco di negri ridurti in fin di vita) ma oggetti, di proprietà del maschio (la donna TUA  moglie e la donna TUA  sorella) .

 Questo è un retaggio della millenaria  cultura patriarcale in cui il maschio possiede la donna, ne dispone come vuole, ne pretende risposte  condizionate, come un telefonino reagisce alle sollecitazioni delle nostre dita. Un aspetto ulteriormente peggiorato dall’istituzione della famiglia.  L’elemento  sociale di base  in cui l’uomo è signore e proprietario assoluto di moglie e figli.  Il potere e la potestà dell’uomo sulla donna deriva da misoginie  che si perdono nella notte dei tempi.  

Già nei miti dell’età dell’oro Zeus per punire gli uomini,  rei di aver accettato il fuoco (inteso come logos, intelletto) ricevuto in dono da Prometeo,  che l’aveva sottratto al Dio Supremo  con l’inganno , inviò loro “l’ambiguo malanno” cioè la donna. Tralasciamo poi  le figure bibliche di Adamo ed Eva i cui destini sono noti. Come si vede  è  difficile disincrostare un tale consolidato  grumo patriarcale.  Il concetto della donna, come essere abbietto e come proprietà dell’uomo, fu  radicato già dalla civiltà ellenica, tanto che alcuni miti, raccontati ad esempio da Diodoro Siculo  furono totalmente invisi ai Greci. 

Lo  storico greco di  Agirio (Sicilia)   nella sua opera Storia Universale racconta di un'Isola Felice situata ai margini del mondo conosciuto. Qui  la fertilità della terra e la dolcezza  del clima generavano una tale quantità di frutti   da sfamare completamente tutti gli abitanti. In quel paradiso donne e uomini vivevano in pace ed in armonia. L’organizzazione sociale era molto particolare. Gli abitanti non si sposavano e i figli non erano  allevati dalla donna che li aveva generati, ma venivano  educati dall’intera collettività,  e amati tutti allo stesso modo. Le donne che  allattavano spesso si scambiavano i neonati  affinchè le madri non potessero riconoscere i loro figli. 

Si era creato un egualitarismo  che contraddiceva il più intoccabile tabù della società patriarcale: il principio di proprietà del figlio e della madre da parte del padre-padrone. Anzi in una tale esaltazione dell’ armonia universale, garanti dell’amore erano le donne. Che, per questa loro fondamentale funzione, ricoprivano un ruolo  preminente nell’organizzazione  sociale. Una figura  del tutto diversa della madre  oggetto di proprietà del padre.

E’ chiaro che l’isola raccontata da Diodoro Siculo è un esaltazione del mito matriarcale.  Ma per dare l’avvio ad un profondo cambiamento, sulla situazione  femminile dobbiamo compiere una rivoluzione culturale così profonda, da avvicinarci a quella organizzazione sociale. Bisogna  rimettere in discussione il concetto di proprietà che, già aberrante a livello economico, diventa pura barbarie  nel rapporto fra i generi. 

Un processo di questo tipo può partire solo all’interno di uno scenario culturale in crescita, dove le istituzioni, e  la  scuola in particolare,  si pongano  l’obbiettivo di indirizzare verso una visione di grande umanità, del rispetto dell’altro in quanto essere paritario, sia esso uomo o donna. Il contesto odierno, invece, presenta un irreversibile disfacimento culturale. Falle enormi di becerume si aprono nei rapporti sociali . In questi spazi si insinua la barbarie, alimentata dall’individualismo, dall’esaltazione    della competitività, dall’obbligo di prevalere a tutti costi. 

Un contesto in cui la proprietà, privata,  patriarcale si esalta ancora di più, e si rovescia in modo crudele verso le donne,  tutte le donne, ma in particolare verso quelle   che rivendicano la loro non  appartenenza.  Se non si mette in campo una prospettiva rivoluzionaria, che rovesci il perfido individualismo imposto dal disvalore liberista, mai ci si potrà indirizzare verso una prospettiva di società matriarcale. E allora continueremo a indignarci quando apprenderemo di stupri e violenze sulle donne, convinti che la semplice indignazione, al massimo un po’ di rabbia possa essere sufficiente a lavarci la coscienza. 

P.S. le notazioni mitologiche sono tratte dal libro di Alfonso Cardamone "Graffiando il mito"

Nessun commento:

Posta un commento