Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

domenica 28 maggio 2017

Ragazzi di calcio

Luciano Granieri


Fu una strana domenica calcistica quella del 27 febbraio 1994. Allo stadio Olimpico c'era  Roma-Sampdoria. Si navigava in fondo alla classifica, distanti anni luce dalla Lazio. E c’era da affrontare la Sampdoria di Mancini, allenata da quell’Eriksson con il quale nove anni prima si era sfiorato lo scudetto. 

Dopo due pareggi, con Atalanta e Cremonese, la vittoria era obbligatoria. Novità nella formazione giallorossa,  Carletto Mazzone schierava come seconda punta, a fianco di Balbo, un ragazzino diciassettenne. Francesco Totti.

 In quel periodo, io e mia moglie avevamo abbandonato la curva sud. Le partite, dopo aver lasciato il pupo di quattro anni a casa dai    nonni, ce le andavamo a vedere in Tevere sud. E' vero c'eravamo imborghesiti. Durante il viaggio  da Frosinone a Roma commentavamo la possibile scelta di Mazzone di utilizzare un secondo attaccante in modo da rendere più efficace la fase offensiva.  Però era un ragazzino!  L'intuizione  fu  felice lo potemmo  constatare in seguito. 

Ma quella era una stagione dannata. La Roma iniziò  bene la partita  con quel pischello che trasformava ogni palla che passava dai suoi piedi in un prezioso regalo per i compagni.  Dall’altra parte, però, c’era un certo Roberto Mancini, allora in forma smagliante. A metà del primo tempo con una combinazione magica , abbiamo visto la palla eclissarsi fra i piedi di Evani, ricomparire ,appena sfiorata,  da Platt, per giungere sugli  scarpini di Manicni, il quale, al volo, implacabile batteva Cervone. Uno a zero per la Samp. 

C’era mezzo primo tempo e tutto il secondo da giocare. Mai come in quella partita fu giusto rievocare l’assedio di Fort Apache, con i blucerchiati tutti dietro e i romanisti a circondare l’area di rigore avversaria. Piacentini, Cappioli, Balbo e lo stesso Totti, sdoppiatosi in un lavoro di punta e rifinitore, provarono a forzare il fortino, ma Pagliuca, portiere sampdoriano, sembrava un grillo. A mia memoria non ricordo una partita così straordinaria da parte di un portiere.

 Ad un certo punto, Totti prese  palla e con una magia mise  Haessler solo davanti a Pagliuca. E’ fatta ci dicemmo.  Neanche per idea, stavolta non fu merito del portiere ma  demerito della piccola ala romanista che sprecò tutto sparando addosso all’estremo difensore,  il quale, nello stato di grazia in cui era non aveva  certo bisogno di  regali. 

Ci sgolammo ad incitare la squadra, ad inveire per le occasioni fallite e a stupirci per Totti. Nulla da fare nella  stagione maledetta perdemmo anche in  quella domenica di fine febbraio. Uno a zero per loro, con un solo tiro in porta scagliato verso la porta romanista. Ma su quel campo, proprio quella   domenica,  potemmo assistere alle gesta di un ragazzino straordinario, che ci deliziò con tocchi da vero artista, autore anche di un colpo di testa ben indirizzato in porta,   Rete? No l’urlo del gol fu  ricacciato in gola dal solito Pagliuca. 

Come ogni fine partita, andammo ad aspettare i giocatori all’uscita posta fra la curva sud e Montemario. Mai come in quel frangente  c'era bisogno di incoraggiare i ragazzi , con un derby alle porte, a meno nove dalla Lazio. Alcuni calciatori uscivano sulle  loro lussuose vetture, altri avrebbero lasciato lo stadio sul pullman. Aspettavamo, ansiosi di vedere i vari Balbo, Aldair, quando ad un certo punto si avvicinò un ragazzino con una vespetta. 

Dopo un po’ da un cancello laterale, uscì un altro ragazzino. Un inserviente della Roma gli disse: “Guarda che questa non è l’uscita  dei calciatori, devi andare all’altro cancello” Quello rispose: “ Ma io vojo uscì de qua, ce sta l’amico mio che me sta’ aspettà” Quel ragazzino, ignorato pressochè da tutti, si avvicinò al tipo con la vespetta. Da una busta di plastica tirò fuori una maglia blucerchiata, la mostrò con orgoglio  all’amico sul motorino e disse: “Te piace, oh è la maja de Mancini!  Ce la semo scambiata dopo la partita.  Mo annamo a fa un giro” Il ragazzetto biondo, dopo aver riposto  la maglia sampdoriana  nella busta, saltò dietro al tizio  col motorino e sparirono indisturbati fra la folla. 

Quel pischello con la casacca  di Mancini era Francesco Totti. Uno che aveva appena finito di deliziare le platee calcistiche  sul prato dell’Olimpico e se ne stava tornando a casa accompagnato dall’amico suo, come se avesse finito di giocare nel campetto del quartiere.  Era il 1994, avevo 33 anni, una moglie e un figlio piccolo. Quel ragazzino dietro la vespetta, mi avrebbe regalato momenti di esaltazione sportiva unici, mi avrebbe riempito il cuore e gli occhi  di giocate, gol, pallonetti, cucchiai, e altre svariate magie calcistiche. 

Oggi di anni ne ho 56, come mia moglie.  Mio figlio  sta per laurearsi e dopo aver “smaltito” per una vittoria col Genoa preziosa per  l’accesso alla Champions, ho assistito alla festa di addio al calcio del   ragazzetto  della  vespetta. Proprio lui,   che per 23 anni è stato parte delle mie emozioni, delle mie gioie . Già quel pischello ,come lui stesso ha detto oggi in lacrime,  è  diventato grande.   

 E mai come oggi  ho sentito la nostalgia di rimanere bambino. 

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