Fu una strana domenica calcistica quella del 27 febbraio
1994. Allo stadio Olimpico c'era Roma-Sampdoria. Si navigava in fondo alla
classifica, distanti anni luce dalla Lazio. E c’era da affrontare la Sampdoria
di Mancini, allenata da quell’Eriksson con il quale nove anni prima si era
sfiorato lo scudetto.
Dopo due pareggi, con Atalanta e Cremonese, la vittoria
era obbligatoria. Novità nella formazione giallorossa, Carletto Mazzone schierava come seconda
punta, a fianco di Balbo, un ragazzino diciassettenne. Francesco Totti.
In quel
periodo, io e mia moglie avevamo abbandonato la curva sud. Le partite, dopo
aver lasciato il pupo di quattro anni a casa dai nonni, ce le andavamo a vedere in Tevere sud. E' vero c'eravamo imborghesiti.
Durante il viaggio da Frosinone a Roma
commentavamo la possibile scelta di Mazzone di utilizzare un secondo attaccante
in modo da rendere più efficace la fase offensiva. Però era un ragazzino! L'intuizione fu felice lo potemmo constatare in seguito.
Ma
quella era una stagione dannata. La Roma iniziò bene la partita con quel pischello che trasformava ogni
palla che passava dai suoi piedi in un prezioso regalo per i compagni. Dall’altra parte, però, c’era un certo Roberto
Mancini, allora in forma smagliante. A metà del primo tempo con una
combinazione magica , abbiamo visto la palla eclissarsi fra i piedi di
Evani, ricomparire ,appena sfiorata, da Platt, per giungere sugli scarpini di Manicni, il quale, al volo, implacabile
batteva Cervone. Uno a zero per la Samp.
C’era mezzo primo tempo e tutto il
secondo da giocare. Mai come in quella partita fu giusto rievocare l’assedio di
Fort Apache, con i blucerchiati tutti dietro e i romanisti a circondare l’area
di rigore avversaria. Piacentini, Cappioli, Balbo e lo stesso Totti,
sdoppiatosi in un lavoro di punta e rifinitore, provarono a forzare il fortino,
ma Pagliuca, portiere sampdoriano, sembrava un grillo. A mia memoria non
ricordo una partita così straordinaria da parte di un portiere.
Ad un certo
punto, Totti prese palla e con una magia
mise Haessler solo davanti a Pagliuca. E’
fatta ci dicemmo. Neanche per idea,
stavolta non fu merito del portiere ma demerito della piccola ala romanista che sprecò
tutto sparando addosso all’estremo difensore, il quale, nello stato di grazia in cui era non aveva certo bisogno di regali.
Ci
sgolammo ad incitare la squadra, ad inveire per le occasioni fallite e a
stupirci per Totti. Nulla da fare nella stagione maledetta perdemmo anche in quella
domenica di fine febbraio. Uno a zero per loro, con un solo tiro in porta scagliato
verso la porta romanista. Ma su quel campo, proprio quella domenica, potemmo assistere alle gesta di un ragazzino
straordinario, che ci deliziò con tocchi da vero artista, autore anche di un
colpo di testa ben indirizzato in porta, Rete?
No l’urlo del gol fu ricacciato in gola
dal solito Pagliuca.
Come ogni fine partita, andammo ad aspettare i giocatori
all’uscita posta fra la curva sud e Montemario. Mai come in quel frangente c'era bisogno di incoraggiare i ragazzi ,
con un derby alle porte, a meno nove dalla Lazio. Alcuni calciatori uscivano sulle
loro lussuose vetture, altri avrebbero
lasciato lo stadio sul pullman. Aspettavamo, ansiosi di vedere i vari Balbo,
Aldair, quando ad un certo punto si avvicinò un ragazzino con una
vespetta.
Dopo un po’ da un cancello laterale, uscì un altro ragazzino. Un inserviente
della Roma gli disse: “Guarda che questa
non è l’uscita dei calciatori, devi
andare all’altro cancello” Quello rispose: “ Ma io vojo uscì de qua, ce sta l’amico mio che me sta’ aspettà”
Quel ragazzino, ignorato pressochè da tutti, si avvicinò al tipo con la
vespetta. Da una busta di plastica tirò fuori una maglia blucerchiata, la
mostrò con orgoglio all’amico sul
motorino e disse: “Te piace, oh è la maja de Mancini! Ce la semo scambiata dopo la partita. Mo annamo a fa un giro” Il ragazzetto biondo, dopo aver riposto la maglia sampdoriana nella busta, saltò dietro al tizio col
motorino e sparirono indisturbati fra la folla.
Quel pischello con la casacca di Mancini era Francesco Totti. Uno che aveva appena finito di deliziare le
platee calcistiche sul prato dell’Olimpico
e se ne stava tornando a casa accompagnato dall’amico suo, come se avesse
finito di giocare nel campetto del quartiere. Era il 1994, avevo 33 anni, una moglie e un
figlio piccolo. Quel ragazzino dietro la vespetta, mi avrebbe regalato momenti
di esaltazione sportiva unici, mi avrebbe riempito il cuore e gli occhi di giocate, gol, pallonetti, cucchiai, e altre
svariate magie calcistiche.
Oggi di anni ne ho 56, come mia moglie. Mio figlio sta per laurearsi e dopo aver “smaltito” per una vittoria col Genoa preziosa per l’accesso alla Champions, ho assistito alla festa di addio al calcio del ragazzetto della vespetta. Proprio lui, che per 23 anni è stato parte delle mie emozioni, delle mie
gioie . Già quel pischello ,come lui stesso ha detto oggi in
lacrime, è diventato grande.
E mai come oggi ho sentito la nostalgia di rimanere bambino.
Nessun commento:
Posta un commento