Diana Torti.
Diana Torti è una
vocalist e psicologa che ha dedicato a Jeanne Lee un approfondito studio
(sinora inedito)
“No words/only a feeling/ no questions/ only a light a being
a light, no sequence /only a being, no journey/ only a dance” (“Nessuna
parola/solo una sensazione, nessuna domanda/solo una luce, nessuna sequenza/ solo
un essere, nessun viaggio/ solo una danza”).
Questi sono i versi con cui apre Conspiracy , album pubblicato a nome di Joanne Lee per la
Earthforms Records nel 1974. Queste liriche, scritte da David Hazelton, poeta
esponente della Jazz Poetry e primo marito della cantante afroamericana, ben
esprimono a parole ciò che la musica rappresenterà attraverso suoni, immagini,
colori. Nonostante i quarantasette anni appena compiuti dalla pubblicazione (a
cui purtroppo non è seguita una meritata ristampa) le suggestioni dei brani
proposte dalla Lee evocano emozioni e stimoli sonori che ancora stupiscono e
incantano, regalano proposizioni musicali più che mai attuali: materiale
prezioso da rileggere e approfondire.
Jeanne Lee nel 1974 aveva trentacinque anni (era nata a New
York il 29 gennaio del 1939). Sin dalle prime esperienze , la Lee mostra una
direzione fortemente innovatrice rispetto all’immagine tradizionale della
cantante jazz. A partire dal suo primo album , nel quale vengono completamente
ridimensionati il tradizionale modo di cantare gli standard e la pronuncia
jazz, la sua ricerca vocale proseguirà esasperando il rapporto tra il testo e
l’improvvisazione in una costante esplorazione della possibilità di
scomposizione e ricostruzione delle
parole o di frammenti di esse, di reiterazione delle stesse, di vocalizzazioni
non necessariamente riconducibili al linguaggio parlato.
The Newest Sound
Around (RCA Victor 1961),
rappresenta l’esordio sia per lei che per Ran Blake, suo compagno di studi alla
Bard College di New York (si erano conosciuti nel settembre del 1956). Jeanne
si impone subito con la sua vocalità calda e suggestiva, fatta di inaspettate
variazioni di suono e di fraseggio, fresca e coraggiose nell’interpretazione .
Blake è un pianista sobrio ed essenziale, che accoglie e comprende sia le
influenze del jazz contemporaneo che quelle del repertorio classico e che
possiede uno straordinario senso armonico e ritmico. Il duo è fuori dagli
schemi e presenta una nuova estetica dell’esecuzione degli standard di jazz. Il
repertorio viene rivisitato in chiave quasi completamente improvvisata, e viene
presentato offrendo una visione che va ben oltre i confini delimitati sia dalla
tradizione del duo piano voce, sia dei canoni delle singole discipline. Il
repertorio da loro esplorato è fatto di standard (tra cui una versione di Straight Ahead , che sancisce la forte connessione tra Lee e Abbey Lincoln; un arrangiamento spaziale e rarefatto di Where Flamingos Fly e una suggestiva
interpretazione di Laura, ma anche
dei brani apparentanti a diverse tradizioni musicali.
Critici e pubblico rimangono senza parole. Nella prima
recensione datata 1962, uscita sula prestigiosa rivista statunitense Down Beat, la voce della Lee viene
considerata troppo ampia e il pianismo di Blake eccessivamente eclettico: c’è
troppa sperimentazione che per molti addetti ai lavori oltrepassa il limite
accettato nella ricerca musicale di quell’ambito. I due musicisti coerentemente
alle loro esigenze interpretative ed esecutive,
hanno semplicemente cominciato ad esplorare le infinite possibilità dei loro
singoli strumenti della combinazione tra
essi, inseguendo una direzione originale e innovativa.
VIAGGIO IN EUROPA
Nel 1963 realizzeranno un inaspettato ed appagante tour in
Europa che soddisferà la loro tenacia identitaria. Suoneranno in Germania,
Norvegia, Danimarca, Olanda, Gran Bretagna e nel mese di maggio anche in
Italia. I critici europei rivisiteranno le poche entusiasmanti attenzioni
finora rivolte al duo, accogliendo con interesse la nuova proposizione di
ricerca musicale, e saranno pressoché concordi nel considerare quella giovane
cantante una preziosa rarità, orientata nella completa disgregazione di confini
tra la voce umana e uno strumento a fiato che improvvisa, senza perdere di
vista la fusione con il testo.
Negli anni a seguire Lee parteciperà a diverse registrazioni
a nome di illustri colleghi con cui collaborava stabilmente: Blasè di Archie Shepp (BYG /Actuel 1969), The 8th of July di Gunter Hampel (Birth
1969), In Sommerhausen (Calig 1969)
di Marion Brown, Escaletor Over the Hill a
nome di Carla Bley (JCOA/Ec, 1971), Town
Hill di Anthony Braxton (HatArt
1972), solo per citarne alcuni (la discografia completa di tutta la sua
carriera ne comprende settantasette).
Con Conspiracy arriva
un momento chiave per la artistica della Lee.
Per la prima volta si propone al contempo compositrice ed esecutrice, ben consapevole
del fatto che il pubblico poteva finalmente ascoltarla in tutti i suoi aspetti. E più che mai la sua
vita artistica era fortemente connessa con il vissuto privato. La sua
formazione artistico-culturale l’aveva portata a confrontarsi con la danza, la
coreografia, la musica, la psicologia e la letteratura, grazie anche ad un
contesto familiare che le aveva consentito di crescere in un ambiente sensibile
all’arte e alla libera espressione di sé. La madre , Madeline, è stata una
delle prime donne afroamericane a lavorare per un impiego governativo ed è stata socialmente molto attiva nella
comunità dove viveva nella famiglia. Il padre S.Alonzo Lee era un cantante
specializzato sia in repertori classici che in musica da chiesa e spiritual. Jeanne
Lee è dunque cresciuta maturando un approccio di apertura e curiosità verso
qualunque stimolo che potesse aggiungere valore alle sue esperienze. Una
ricerca che, presumibilmente, era un’esigenza innanzitutto umana, come emerge
della figlia Cavana Hazelton, in un’intervista che mi ha generosamente
rilasciato nel gennaio 2013: “Posso immaginare che il suo messaggio fosse
l’espressione autentica di sé (…) Era interessata nell’esprimere ciò che
sentiva o ciò di cui sentiva l’esigenza che fosse rappresentato, sia se questo
veniva fatto attraverso le rime durante un campo scuola, che attraverso
discussioni sulla politica o per
esperienza umana”.
VERITA’ ESPRESSIVA
Questo aspetto della personalità della Lee consente di
contestualizzare il lavoro esplorativo della cantante , orientato verso la
ricerca di una verità espressiva sempre più autentica, senza le catene
limitanti delle forme di comunicazione costruite. Basterebbe cominciare pensndo
al periodo storico-culturale in cui si collocano gli esordi, gli anni Settanta,
che sono stati culla delle avanguardie sia di matrice afroamericane che
europea. La storia in cui la donna è immersa diventa per lei un’opportunità: i
linguaggi e le proposte che attraversano la cultura di quegli anni diventano
per lei strumenti con cui poter trasmettere la propria urgenza espressiva, in
modo spontaneo, equilibrato e coerente. Quale mezzo migliore per farlo se non
la musica, vissuta come espressione connessa ad ogni cosa, al di là di un luogo
o persino del tempo stesso. Fortemente radicata nella propria cultura d’origine, la famiglia Lee discende dai Seminole, uno dei numerosi
gruppi tribali di nativi americani dell’America Settentrionale e dell’area
culturale sudorientale, dotato di un senso d’appartenenza e della comunità piuttosto caratterizzante.
La storia di ogni popolo ha qualcosa da offrire alla storia del mondo intero,
siamo tutti connessi gli uni agli altri. Secondo la visione estetica dei
Seminole, il patrimonio culturale e le tradizioni orali dei nativi americani e
afroamericani costituivano gran parte del processo di apprendimento. Spesso Lee
utilizzava così racconti, movimenti di danza o canzoni attingendo a questo
patrimonio per trasmettere nozioni o valori.
Jeanne Lee rivendica il collettivo come esigenza di
realizzazione attraverso cui poter produrre arte e cultura. Non bisogna
dimenticare che è vissuta in un periodo storico in cui gli afroamericani hanno
impresso una forte accelerazione al
processo di lotta per il riconoscimento dei propri diritti. Tale impulso si è
spesso concretizzato in varie forme aggregative , che hanno aggiunto un
significato concreto al senso del collettivo di una comunità di individui.
Questo aspetto è sempre stato un forte collante della vita della cantante, che
ha frequentemente vissuto e realizzato
questa dimensione sia nel privato che
nella sfera artistica (aderendo, ad esempio, all’Aacm e alla jazz composers’s
Orchestra di Carla Bley) e che ha
sviluppato un impegno politico e civile coerente e costante nel tempo.
Il rapporto con l’Europa è stato altrettanto caratterizzante
per la sua vita, complice anche la ricca collaborazione artistica con il
secondo marito, il polistrumentista tedesco Gunter Hampel, conosciuto nel 1967.
Il connubio è perfetto. A partire dalla
fine degli anni ’60 il sodalizio tra i due porterà alla luce diversi progetti e
numerose registrazioni. L’Europa, all’epoca recettiva verso le più disparate forme di sperimentazione, li accoglie con
interesse. Arriveranno anche in Italia, al festival jazz di Pisa nel 1978. Un
palco che regala un’immagine ricca di significato avvolti in un’atmosfera al
contempo affascinate e contrastante per il periodo: la coppia, lei nera e lui
bianco, suona sulla scia di quel lento ma avviato processo di fusione fra il
free jazz degli afroamericani e la
musica d’avanguardia europea. Alla fine degli anni Sessanta, non era così
facile vedere collaborare insieme esponenti del free jazz con musicisti
dell’avanguardia europea. La fusione dei due
mondi musicali è stato un processo di adattamento e di sviluppo più
lento di quanto si possa pensare. Grazie alla sua vocalità originale e unica
nella fusione tra le due tradizioni culturali, John Cage la invita a
partecipare alla performance del suo Apartment
House 1776 (opera scritta per 24 musicisti e 4 voci) commissionata
nell’anno del Bicentenario Americano per il “National Endowment for the Arts”. L’opera è stata diretta nella
prima performance da Pierre Boulez.
La poetessa cantante, come lei stessa amava definirsi,
attraverso la voce diventa ricercatrice
ad esempio per costruire una strada nuova che non annulla, anzi, comprende e va oltre la realtà in cui è
immersa. Lo fa con una certezza: non ha
paura del proprio suono.
Il coraggio espresso nella ricerca sonora e questa coerenza
di identità rendono il suo gesto vocale ricco di significato. E dunque la
parola riconoscibile come tale , diventa un’altra cosa: possibilità di
enunciazione, frammento, scomposizione, vocalizzazione, sillaba, suono vocalico
o consonantico, tutto diventa musica e assume un nuovo significato espressivo.
La parola è fusa con la musica. Esemplificativa a riguardo l’interpretazione
del suo In These Last Days , poema da
lei scritto e magicamente interpretato nell’album Nuba del 1979 (Black Saint Records), uscito a nome del batterista Andrew Cyrille e con Jimmy Lions al sax alto
(album che è stato ripubblicato nel 2013 in un cofanetto della Cam, The Complete Remastererd Recordings on Black
Saint & Soul Note Andrew Cyrille 7 cd set). Il brano può essere visto
come una sorte di manifesto della cantante newyorkese, rappresentazione del suo
impegno , in quanto musicista, verso il cambiamento sociale
LINGUAGGI INESPLORATI
Chissà se la cantante aveva intuito la possibilità di
linguaggio inteso solo come puro suono, a prescindere dal linguaggio
articolato. Per certo la poesia e il testo per lei rappresentavano un punto di
partenza per l’improvvisazione, suggerendo possibilità fino ad allora
inesplorate nelle improvvisazioni vocali. E anche in quest’ambito Jeanne Lee ha
sempre un carattere lirico e armonioso, rispettando una fluidità melodica e
un’eleganza sonora che convivevano anche nel contesto di ricerca più estremo,
come quello del free jazz.
Straordinaria nella ricerca improvvisativa, coraggiosa nelle
acrobazie ritmiche e nelle esplorazioni timbrico-cromatiche, appassionata
poetessa, unica nella sua ricerca interpretativa attraverso cui aggiungeva significato
a ogni fonema pronunciato. Difficile immaginare le sue caratteristiche sonore
scisse dalla sua personalità: l’autentica espressione del sé immersa in una
dimensione totale, dalla quale la sua voce non poteva prescindere. Tutto questo
la rendeva sinceramente umana e dunque autenticamente bella.
Una storia che si consiglia di ripercorrere, sperando di
poter al più presto vedere ristampati alcuni degli album ai quali ha collaborato:
la bellezza della condivisione si arricchirebbe di un tesoro in più.
Fonte: alias del 26 agosto 2017.
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